Nella grande e irripetibile stagione psichedelica deflagrata nella seconda metà degli anni sessanta, gli inglesi della Third Ear Band hanno costituito un unicum, sia per la particolarità della strumentazione impiegata (prevalentemente viola, violino, violoncello, oboe e tabla), sia per il tentativo di comporre pezzi che imbrigliassero al loro interno le peculiarità territoriali e le energie ataviche di paesi lontanissimi tra loro, nel tempo come nello spazio. Pezzi strumentali dove l’improvvisazione libera regnava quasi incontrastata e che potevano essere apprezzati appieno solo se recepiti attraverso il “terzo orecchio”, simbolo della nostra essenza più profonda e ancestrale che fa (o dovrebbe fare) di tutti noi dei fraterni compagni di viaggio in questa cosa che chiamiamo vita.

Alchemy”, disco d’esordio della band, è un vero e proprio “giro del mondo in 50 minuti” (al confronto, Jules Verne con i suoi 80 giorni era un principiante!) in cui i nostri, cercano di risalire ai più reconditi segreti della Terra tracciando un fil rouge che colleghi e compenetri il bagaglio culturale e le prassi millenarie dei popoli “visitati”.

Si parte da “Mosaic” dove , su un drone di tabla che ricorda una martellante danza di guerra africana, si alternano e si intrecciano un incalzante violino dal sapore zigano e lo sfarfallio di un vivacissimo oboe.

Con “Ghetto Raga” la band si sposta in Medio Oriente, dando vita ad un pezzo pregno di un’ assolata psichedelia nel quale il tremolio del tappeto sonoro di viola e violino surriscalda costantemente l’aria respirata. Climax ideale per un oboe, stavolta ipnotico, intento a dipingerci il miraggio di carovane di cammelli e beduini, di dune e sabbia a perdita d’occhio e di sinuose odalische che danzano per noi.

L’ atmosfera si fa più sfumata e crepuscolare nelle celtiche “Druid One” e “Stone Circle”: se nella prima ci pare di scorgere nella nebbia notturna l’apparizione di due Druidi che confabulano tra loro, nella seconda il mood medievale e placido ci catapulta al ricco banchetto di nozze di una raffinata nobildonna con un rispettabile gentiluomo.

Il misticismo di “Egyptian Book of the Dead” ci porta invece nei territori sconosciuti propri di un defunto che attende il dio egizio Anubi, il quale, per scoprire se in vita è stato un uomo giusto o uno malvagio, peserà il suo cuore. Il battito di questo cuore, scandito da una febbricitante partitura di tabla, l’inquietudine del trapassato, resa con uno spasmodico crescendo degli strumenti ad arco, ne fanno un pezzo oscuro e vibrante che termina con il violino che “mima” il suono del portone della “Sala delle Due Verità” che si spalanca.

Area Three” è forse il pezzo più indefinibile ed astratto: i vari strumenti compongono una sceneggiatura coerente ed omogenea nella quale, lo spiazzante folleggiare di uno scacciapensieri, ricorda lo straniamento tipico di alcuni monologhi dei personaggi che popolano il teatro brechtiano.

Riusciamo poi, con “Dragon Lines”, a partecipare al coloratissimo e festoso baccanale del Capodanno cinese. Qui, con gli strumenti suonati nei registri più alti, siamo letteralmente sommersi da coriandoli, da fuochi d’artificio, da Lanterne Rosse e dall’incedere zigzagante della “Danza del Drago”.

Chiude il disco la breve e rinfrescante pastorale di“Lark Rise”: violino, flauto dolce e tamburello indirizzano la melodia in quella che sembra essere una piccola quadriglia nella quale si cimenta un gruppo di amici trovatisi vicino ad un ruscello, per un picnic d’altri tempi.

Disco di “mosche bianche” per “mosche bianche”, “Alchemy”, a mio modo di vedere, è leggermente inferiore alla magnum opus della band (“Third Ear Band” conosciuto anche come “Elements”), ma è comunque ricco di spunti interessanti ed ha la straordinaria capacità di far vivere stati d’animo e di portare immagini che spaziano in tutte le direzioni.

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