I Throbbing Gristle sono stati sicuramente una delle band più radicali ed influenti della new-wave. Nessuno infatti può disconoscere loro il merito di aver creato un suono cacofonico, martellante e "concreto" che avrebbe preso il nome di "industriale". Sin dalla nascita, il quartetto di Londra è stato attratto dalla disumanizzazione dell'uomo moderno, soppiantato dall'ormai irrefrenabile ascesa dell'automatismo. Il tema, è sempre quello, ricorrente bene o male in tutti gli artisti "intellettuali" del periodo.

Ciò che differenziava i Throbbing Gristle era il modo in cui esprimevano il loro disgusto, cercando cioè di provocare il massimo del disgusto. Le loro performance multimediali erano truculente e sadiche, con proiezioni al limite dell'orrore. Registravano, come appunti sparsi, qualsiasi tipo di suoni "trovati": conversazioni, martelli pneumatici, squilli di telefono, macchine da pressa, automobili. Tutto questo per creare un quadro di totale alienazione, un'immagine in bianco e nero che ci riporta direttamente al devastante incubo del David Lynch di Eraserhead.
La stessa copertina di questo disco nella sua apparente tranquillità è inquietante. Quei sorrisi sadici ritratti in un quadretto bucolico hanno qualcosa di drammatico, che si svela immediatamente una volta guardato il retro-copertina. La stessa immagine, ma in bianco e nero, e soprattutto il corpo nudo di un cadavere ai loro piedi. Adesso sì che le loro espressioni sembrano pertinenti.

E pensare che questo viene ritenuto il disco della svolta dei Throbbing Gristle, il lavoro che segna l'apertura verso un suono più malleabile. Ciò in parte è vero, ma solo se relazionato a cosa erano i Throbbing Gristle due anni prima, e cioè all' epoca dell'uscita di Second Annual Report, il loro primo lavoro e sicuramente il più estremo. Non vi aspettate però "melodie" e ritornelli orecchiabili. Il tema di fondo rimane quello della maledizione industriale, percorso sempre dal solito filo di perversione che li caratterizza.
Il fine è sempre quello di portare l'ascoltatore allo sfinimento, solo che questa volta usano dei mezzi meno violenti. Anzi per certi versi cercano di indurre uno stato di desolazione mentale non dissimile dall'ipnosi.
Si ascolti, per rendersi conto di ciò, un brano come "Persuasion". Un ticchettio snervante... poi un un rintocco fisso di basso, poi delle voci di fondo che vanno e vengono, ed un'estenuante cantilena filtrata che intona una ninna nanna meccanica. Una ninna nanna industriale. E' il lato in bianco e nero di una canzone d'amore. Privata di tutta la sua carica emotiva, di tutta la sua passione romantica, non resta che un mero battito robotico, un glaciale rintocco disumano. E' l'uomo inghiottito dalla macchina.
Stessa sorte tocca al ballabile. "Hot On The Heels Of Love" è infatti una danza per umanoidi, non certo per uomini, un frenetico balletto per discoteche popolate cyber intelligenti. Fa la stessa fine persino il reggae, sfigurato dalla crudele desolazione della title-track.
Il succo però del loro stato mentale prossimo al collasso è senza dubbio nei 12 terrificanti minuti di "Discipline", l'equivalante industriale della "Frankie Teardrop" dei Suicide. Battiti violenti di elettronica impazzita, una pulsazione violentissima, praticamente un inno alieno, e su tutto una voce disperata in lontananza, le grida di un pazzo, un uomo che sta arrendendosi al suo destino, in preda a convulsioni cerebrali, ultimo stadio del processo di alienazione totale.

Disco sicuramente non per tutti, spaventoso nel suo disegnare paesaggi tetri e spettrali, rappresenta però un'eccellente testimonianza del clima che si respirava nell'Inghilterra industriale di fine anni '70, ma soprattuto incarna i primordi di un genere che in futuro troverà grande successo e diffusione, ma che non poteva che nascere in quel posto, in quel momento.

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