Trovare un punto di contatto fra questo "A Deeper Kind of Slumber" e il primo full-lenght dei Tiamat "Sumerian Cry" è davvero un'impresa ardua. Chi conosce e segue da tempo il combo scandinavo, del resto, è certamente abituato alle sorprese: dal death-metal al vetriolo delle origini, l'evoluzione e la capacità di stupire sono state negli anni la vera arma vincente dell'entità Tiamat, sempre un passo avanti rispetto al resto della scena.

Se in "Clouds" (fra i primi album gothic metal a tutto tondo) i nostri furono pionieri nell'uso massiccio di tastiere e voci pulite, palesando il deciso intento di distaccarsi dagli stilemi classici della musica estrema, in "Wildhoney" (capolavoro insuperato, dalla band stessa come dalla scena intera) i Tiamat transcendono i confini stessi dell'universo gotico, arricchendo il loro sound con intriganti divagazioni psichedeliche e con sempre più eleganti costruzioni sinfoniche.

Con questo "A Deeper Kind of Slumber" i Tiamat escono addirittura fuori dal metal (e per certi versi anche fuori dal rock!), inaugurando un flusso migratorio che negli anni successivi condurrà molte band, paradossalmente provenienti proprio da ambienti più o meno estremi, verso lidi musicali e sonorità fino a poco tempo prima impensabili e che poco avranno a che vedere con il verbo del metallo.

E' il 1997: perduto per la strada Hagel (che, insieme a Lodmalm dei Cemetary, preferirà sposare la causa dei Sundown, trascurabile progetto electro-goth-metal), i Tiamat divengono a tutti gli effetti l'incarnazione delle visioni poetiche di Johan Edlund. A dare una mano al cantante-chitarrista (pure alle tastiere e responsabile delle parti di elettronica), troviamo coloro che diverranno il nucleo essenziale della band negli anni a venire: Lars Skold (ereditato dalle registrazioni di "Wildhoney", in cui figurava ancora come session-man: forse il batterista meno fantasioso del mondo, ma perfettamente a suo agio con i tempi languidi che la situazioni richiede), Anders Iwers (già chitarrista nei sopra citati Cemetary, per l'occasione retrocesso al basso) e una vecchia conoscenza in casa Tiamat, il chitarrista Thomas Petersson, figliol prodigo che lasciò la band ai tempi di "Clouds" e che torna adesso a fregiare la musica dell'amico Edlund con i suoi sempre apprezzati assoli.

In occasione di "A Deeper Kind of Slumber", composto in piena solitudine, fra casini sentimentali, brusche precipitazioni d'umore e travagliati tentativi di resurrezione, Edlund decide di abbandonare i toni enfatici e pomposi che avevano contraddistinto la passata produzione, per approdare ad una forma più consona allo stato d'animo del momento. La fluida psichedelia dei Pink Floyd (da sempre influenza fondamentale per i nostri) e la malinconica sensualità dei Depeche Mode divengono le coordinate su cui si va a snodare il nuovo corso artistico della band, più intimo, personale e legato alle vicende biografiche del suo leader.

I chitarroni, il growl e i pochi rimasuglioli di un passato brutale lasciano definitivamente lo spazio ad un sofisticato electro-pop/dark d'autore. Dei vecchi Tiamat rimane senz'altro il talento visionario di Edlund, da sempre promotore di una musica evocativa e pregna di atmosfere sognanti, a tratti malinconiche, a tratti minacciose, ma sempre magiche e ricche di visioni: "A Deeper Kind of Slumber", come lo sono stati (seppur in altre forme) "The Astral Sleep", "Clouds" e "Wildhoney", è un vero e proprio viaggio onirico, un continuum emozionale capace di estraniare l'ascoltatore e condurlo oltre i labili confini della coscienza, verso lo sfuggente regno di Morfeo. Questa volta però, rispetto che in passato, le atmosfere si vanno ad arricchire di una inedita forza emozionale, proprio per le sensazioni, i significati e i vissuti privati che stanno dietro alla stesura dell'album: il mood malinconico, che da sempre costituisce il tratto peculiare della band, qui appare più umano e sincero, e si va ad arrichire di connotazioni inedite, come la vulnerabilità e la fragilità che si respirano per la durata dell'intero platter, o il manifesto sforzo (non sempre riuscito ed è proprio questo il bello) di assumere un atteggiamento di distacco nei confronti del dolore.

L'opener (e singolo apri-pista) "Cold Seed", semplice ma accattivante brano rock dalle forti influenze dark-wave, è un vero schiaffo per chi dai Tiamat si aspetta ben altro, ma è anche vero che costituisce un episodio fine a se stesso, isolato dal resto dell'album. Si torna al via e si riparte così con le suggestioni elettro-acustiche di "Teonanacatl", i suoi break elettronici che mozzano il fiato, fino al definitivo collasso elettronico di "Trillion Zillion Centipedes", tappeto rosso per il trip-hop allucinogeno di "The Desolate One": quanto lungi dalla magniloquenza del passato, eppure quanto ci piacciono i sussurri paranoici di Edlund che affiorano dai vortici metafisici dell'elettronica. Sprofondare nella melma, e poi riemergere fra gli spruzzi giocosi di "Atlantis as a Lover", vivida testimonianza di un illustre passato: etera ed evocativa come lo era stata "Gaia", ma più liquida, con quel ritornello barrettiano e le chitarre che esplodono intense nel finale, chiamate a supportare il triste canto del violino. Come era accaduto in "Wildhoney" i brani sono concatenati fra di loro, evitando inutili interruzioni.

Scema la chitarra, e torna il fruscìo delle onde, ariose tastiere accorrono in soccorso e poi un arpeggio: è il turno di "Alteration x 10", la semplicità fatta musica, ingenua nei suoi accordi elementari, puerile nel suo testo, ma funzionale al disegno generale, che si sviluppa sinuoso, ammaliante, fra momenti di quiete ed improvvise deflagrazioni elettriche. Torna la calma, i fruscii di chitarra si perdono nel vuoto e cedono il passo al basso ipnotico e alle divagazioni etniche di "Four Leary Biscuits", momento di estasi ascetica: un flauto traverso, gli influssi mediorientali di un sitar, isterici gorgheggi femminili. Poi di nuovo la cruda realtà, il dolore che affiora nuovamente: è lo struggente pop di "Only in my Tears It Lasts", che ci culla con la malinconia di un soffice tappeto di elettronica ed un assolo di marca gilmouriana, fino all'irrompere dei ritmi danzerecci di "The Whores of Babylon", irruente e minaccioso passaggo EBM.

Finalmente un po' di silenzio, il tempo di riprendere fiato ed abbandonarsi all'ultima sezione dell'album, quella a mio parere più emozionante. La poesia primaverile di "Kite" ne è solo la premessa: "Phantasma de Luxe", aperta da un arpeggione aereo e dalla voce oscura di Edlund, è una ballata apocalittica di rara bellezza. L'allegro cinguettio degli uccellini è invece la giusta premessa per le esplorazioni floydiane di "Mount Marilyn", dieci sublimi minuti di rarefazione onirica, un'escursione al di là dei confini della coscienza, fra fraseggi acustici, lisergici sussurri e pregevoli assoli.

Il vero balzo "dall'altra parte", tuttavia, ce lo fa fare la title-track, posta giustamente in chiusura a rappresentare l'apice emozionale dell'intera opera. Piove sulla nostra coscienza, le variopinte pareti dello stato di dormiveglia si ergono ai lati del nostro giaciglio mentale: un arpeggio inquieto, raggelanti squarci di sinth e un Edlund in stato di grazia (mai come qui fedele alle gesta del Dave Gahan più ispirato) vanno a tratteggiare i paesaggi allucinati e desolati che sanciscono il confine fra il reale e l'irreale, fra sogno e realtà.

Con questo album Edlund raggiunge il suo apice come autore, compositore ed artista libero e svincolato da ogni schema: pur non inventando niente, la sua è una rilettura, in chiave romantica e dai forti connotati autobiografici, del viaggio psichedelico, ricondotto appunto entro i binari onirici e visionari che da sempre caratterizzano la sua proposta artistica. E se ben evidenti sono le influenze a cui egli ha attinto e la loro ovvia irraggiungibilità, quel che ne esce è qualcosa di estremamente personale ed originale, tanto più stupefacente perché proveniente da un mondo quale è quello del metal, da cui ci aspetterebbe tutt'altro tipo di sensibilità e sonorità.

"A Deeper Kind of Slumber" è anche, a mio parere, il canto del cigno dei Tiamat, che già dal successivo "Skeleton Skeletron" (che titolo del cazzo!) preferiranno abbandonare i lungimiranti insegnamenti dei Pink Floyd per adottare come nuova musa ispiratrice l'entità Sisters of Mercy, finendo per scadere in un canonico dark-metal in stile Him. Paradossalmente, anche in questo saranno fra i primi, anticipando una tendenza che fra i fautori del doom e del gothic metal esploderà negli anni successivi.

Quando si è avanti si è avanti…

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