E così ad un certo punto Johan Edlund perde la bacchetta magica; del resto prima o poi succede a tutti, anche ai più grandi, figuriamoci gli altri.

Il problema è che il cervello di Edlund si riempie completamente di merda in un nano-secondo, la sua musica passa dall'eccellenza alla mediocrità con un sol tragico balzo: evidentemente fra “A Deeper Kind of Slumber” e “Skeleton Skeletron” qualcosa succede, l'incantesimo si rompe per sempre, tanto che nella carriera dei Tiamat si può parlare di un prima e di un dopo “Skeleton Skeletron”.

Non che Edlund avesse mai scritto chissà quale musica eccelsa, ma il suo percorso artistico aveva brillato perlomeno di lungimiranza: se un virtuoso non lo è stato mai, se mai la sua è stata una ricerca veramente raffinata, è tuttavia vero che negli angusti confini del metal estremo è stato fra i più coraggiosi, fra i più visionari, fra i più indipendenti sperimentatori, se non in grado di coniare un nuovo stile, capace senz'altro di spingersi in territori precedentemente non battuti da altri, anche solo mescolando, anche solo riciclando e contaminando il metal di altri linguaggi, anche solo dando sfogo a pulsioni e tendenze che fino ad un momento prima parevano proibitive per l'ortodossia metallica vigente. E la progressione che ha portato i Tiamat da un rozzo ed impersonale death metal a quel gioiello di raffinato e bellissimo pop psichedelico che era stato “A Deeper Kind of Slumber”, dopo per altro aver rivoluzionato l'universo del gothic/doom metal, non è in effetti cosa da tutti.

Fatto sta che ad un certo punto Edlund ha smesso di farci sognare, forse di sognare lui stesso. Forse il miraggio di un successo su vasta scala (nei limiti del genere, ovviamente) l'ha portato a bersi il cervello (pieno di merda), a sentirsi un figo (su quali basi poi), a sacrificare tutto ciò che aveva costituito la ragion d'essere della sua dimensione artistica.

Fatto sta che nel '99 esce “Skeleton Skeletron”, il primo passo falso della band dopo una crescita che sembrava inarrestabile e foriera di sviluppi imprevedibili. Ed invece nel 1999 esce questo dischetto di soli quarantacinque minuti, di soli dieci pezzi, da un titolo che peggio di così non si poteva concepire ed una copertina che già svela la nuova attitudine della band: un artwork minimale, moderno, che incornicia i volti dei tre divi rossettati e mascarati, la locandina di un film che si annuncia però un flop già dai titoli di testa.

L'opener “Church of Tiamat”, che per ammissione dello stesso Edlund non è altro che un manifesto auto-celebrativo per festeggiare i primi dieci anni di attività della band, recupera i chitarroni che erano stati abbandonati dopo il capolavoro “Wildhoney”, s'indurisce il suono, che torna pesante, evocativo: evocativo come i vecchi Tiamat prima della coraggiosa svolta pop? Niente di più sbagliato: solo le distorsioni guadagnano d'intensità, ma le trame sono elementari, la voce monocorde di Edlund non si eleva dal contesto, probabilmente non è quel carismatico crooner che egli si crede; la scorza metallica, l'afflato dark tradiscono una puerilità in sede di scrittura che del pop beffardamente conserva l'orecchiabilità e la semplicità di approccio, ma non lo sforzo di ricerca compiuto in passato. Le scontate linee di basso di Anders Iwers e i tempi scolastici della batteria di Lars Skold sono l'ossatura da semplici comparse su cui si muove l'estro appannato di Edlund, diviso fra microfono, chitarre e tastiere, intento ad inseguire lo status di genio factotum senza però averne la levatura.

Ma del resto, già l'aver adottato una formazione modello power-trio, che dispensa dalle danze la provvidenziale chitarra solista di Thomas Pettersson, per concentrarsi sull'impatto e su melodie di facile presa, palesa la scelta di fondo che anima questa opera che pecca infine del peggiore dei peccati, ossia quello della prevedibilità. Un tuffo maldestro nell'empireo della dark-wave più piaciona, senza disegnare una propensione al rock'n'roll mordi-e-fuggi che certo in terra scandinava non è mai stato un tabù: ecco che cos'è in soldoni “Skeleton Skeletron”, e il singolo “Brighter than the Sun” ne è la triste anticipazione (corredata fra l'altro da un orripilante video in cui un ridicolo Edlund in versione torero viene investito a più riprese da un'auto guidata dalla bellona di turno): riff hard rock, vocione tenebroso, cori gospel e tanta voglia di far dark e rock senza però essere né i Sisters of Mercy (richiamati in più di una circostanza), né tanto meno i Rolling Stones (tributati persino con una evitabile cover). Niente di nuovo, peraltro, visto che qualcosa di simile era stato tentato con “Cold Seed”, guarda caso l'episodio più scialbo del lavoro precedente (ma perlomeno all'epoca l'esplorazione di certe sonorità aveva costituito un azzardo dirompente in casa Tiamat). E poi via (quasi) tutta l'elettronica, che poteva costituire un terreno fertile su cui continuare a coltivare. Ma perchè Edlund hai rinnegato i Pink Floyd? Perchè hai staccato il cervello e ti sei messo a fare questa marmaglia di goth-rock patinato tipo Him? Volevi divertirti di più? Volevi guadagnare di più? Volevi trombare di più?

Sia quello che sia, fatto sta che di malinconico in questo album c'è solo la consapevolezza che, brano dopo brano, stia scorrendo via quello che invece poteva essere l'ennesimo capolavoro messo a segno dalla band svedese. Non che sia tutto da buttare, Edlund sembra ancora disporre di due o tre cartucce vincenti, non a caso i pezzi più lenti, riflessivi, che in qualche modo ricordano i Tiamat di una volta: “To Have and to Have Not”, per esempio, è una ballata che nella coda finale sa riproporre con maestria quegli arpeggi, quelle tastiere, quelle stratificazioni sonore che avevamo apprezzato nell'illustre predecessore. “Best Friend Money Can Buy”, aperta ed accompagnata da un bel giro di pianoforte, è un blues dolente che lancia i Tiamat negli affascinanti territori di un cantautorato à la Nick Cave (quasi un plagio, in verità, delle celeberrime Murder Ballads). Oppure il bellissimo brano di chiusura, l'inaspettatamente affossante (dopo tanto sculettare) “Lucy”, che sa fare a meno delle chitarre, per edificarsi su un sound fatto di solenni orchestrazioni ed una solida base ritmica. Un bel colpo di coda, anche se i lidi di eccellenza precedentemente calcati sono lontani, molto lontani, e di certo due o tre episodi dignitosi non sollevano le sorti di un album che vorrebbe tanto piacere, in particolare ai nostalgici di certe sonorità, ma che alla fin fine si esaurisce in pezzi piatti, privi di mordente, orfani di ritornelli veramente accattivanti, nonostante il piglio radiofonico (come “As Long as You are Mine”, aperta persino da un incipit discotecaro). Un paesaggio desolante dove non riesce a svettare nemmeno la ruffiana cover di “Sympathy for the Devil” (viva l'originalità, non c'aveva mai pensato nessuno, davvero!, ti piace vincere facile, eh Johan?), un pezzo che farebbe la sua porca figura anche alla festa delle medie, suonata da cispiosi brufolosi ragazzini in fase pre-adolescenziale.

Ma il problema più grosso è che questo “Skeleton Skeletron” non è solo la sbandata di un momento, ma diverrà nel tempo il canovaccio su cui verranno sviluppati gli sforzi successivi della band, che purtroppo non riuscirà ad uscire dal pantano di un declino che negli anni acquisirà i contorni della mesta certezza. Così è la vita: se dei fan si perdono per la strada, altri arriveranno, probabilmente è un calcolo fatto a monte. Anche se poi la band cercherà, con parziali passi indietro, senza nemmeno troppa convinzione, di riguadagnare fette perdute del proprio passato (e dei propri ammiratori). E come troppo spesso capita dopo una cocente delusione, vi è sempre la speranza del fan ad illuminare il cammino del peccatore rendente: ogni release successiva, al momento della sua uscita, verrà così sopravvaluta, preferita a quella immediatamente precedente, che per magia sarà nel frattempo sbiadita nella sua intrinseca ed originaria mediocrità. E così “Judas Christ”, che recupera in parte la vena psichedelica, sarà migliore di quel piattume che era stato “Skeleton Skeletron”, e “Prey”, che resuscita addirittura certe ambientazioni di “Wildhoney”, sarà ancora migliore di “Judas Christ”. Ma sarà solo l'illusione di un attimo, perchè la triste realtà è che tutti, compresi gli ultimissimi album, sono davvero roba priva di reale spessore, nemmeno l'ombra dei Tiamat che avevamo conosciuto fino a “A Deeper Kind of Slumber”.

Anzi, riascoltando oggi questo “Skeleton Skeletron, che all'epoca mi fece tanto rabbrividire, ci si rende conto che certi momenti non sono nemmeno poi così male, e che forse oggi per i Tiamat poter disporre di nuovi canzoni del livello di una “Lucy” sarebbe davvero una manna dal cielo.

É stato bello finchè è durato. Ma adesso ciao.

Per davvero. Ciao.

Carico i commenti...  con calma