Questo disco, se il Gothic ha mai avuto un significato, ne rappresenta, assieme a pochi altri, la summa e la cima inarrivabile.
Quando uscì, schiere di detrattori corsero a demolirlo in ogni sua parte; dicevano che era troppo "confusionario", "privo di vere e proprie canzoni", "ibrido e sfocato", "poco ortodosso", "poco feroce", e invece oggi, a distanza di anni dal suo esordio alle stampe, se ne può dare un giudizio che, per gli amanti del genere non potrà che essere di eccezionale vigore riguardo la sua caratura artistica, musicale e soggettiva.
D'accordo, nel database esiste già una recensione di questo album che invito tutti a leggere, ma, se mi permettete, vorrei tributare ai Tiamat che suonavano in questi solchi, il mio personale ringraziamento per avermi aperto le porte a certe cose che prima non avrei mai neppure immaginato.
Se i Paradise Lost sono riconosciuti universalmente come i fondatori del genere, i Tiamat certamente, per quanto concerne le loro atmosfere rarefatte, i passaggi in "clear", la decadenza e la sinfonicità dei suoni, ne sono certamente un pilastro poco imitabile e proprio per nulla trascurabile. E "Wildhoney" a parere di chi scrive, è il sunto assoluto, la qualità magistrale di quanto detto finora, l'umore che poi gli stessi Tiamat non riusciranno più a perpetrare nel futuro loro, prossimo e venturo.
Capolavori come "Gaia", "Whatever That Hurts", "The Ar", "Kaleidoscope", rimarranno scolpiti nella memoria di chiunque li ascolti, anche distrattamente, anzi, soprattutto se in quella maniera, perché anche questa è stata una caratteristica della band svedese: quella di riuscire a catturare e ad irretire con una semplice combinazione di poche, affascinanti note.
Se poi però ci si addentra a fondo nei significati molteplici e nelle miriadi di sfaccettature e paesaggi caleidoscopici insiti in tutto il lavoro, allora si scopre quanto immenso e fortissimo sia il sentimento che ha legato in una composizione sola e molteplice, strumenti, voci, umori sideralmente tragici e complessi, tediosi fantasmi di un passato che è sempre di là dal ritornare, e di là dall'annientare, ancora una volta, tutto quanto di certo e significativo un uomo può costruirsi.
Odore di ricordi belli e dolci, soffocati dalla memoria triste e persa, e per questo più asfissiante, che li rende organismi antropomorfi in alieni sonni della ragione e del buio dell'empirismo. Ecco che cosa sono le canzoni di "Wildhoney". Niente che si riesca a scindere precisamente ed in maniera ottimale, niente che possa essere ascoltato o assimilato in maniera subitanea e gradevole, ma piuttosto in maniera che non si riuscirà a controllare, fuori da ogni schema, senza nessuna direzione.
Non c'è proprio modo, sembra, di poter confrontare i diversi episodi gli uni sugli altri, perché, semplcemente, è inutile: ogni tassello sta al suo posto perché deve starci, perché è parte di un disegno strano e mefistofelico che noi non possiamo comprendere né scindere in nessuna parte che ci appartenga. Niente di niente insomma. Solo un trasporto trascendentale, che culla chi ascolta tra le note pizzicate di "Kaleidoscope" e di "Do You Dream of Me?", che porta a chiudere gli occhi, a raggomitolarsi in se stessi, a riflettere, a sentirsi unici, coinvolti e senza peso nell'Universo.
Questo è "Wildhoney". Non serve a nulla che si parli delle parti strumentali, della tecnica, del growl particolare di Johan Edlund e dei suoi sussurri derivati dall'amore per i Seventies e per i Pink Floyd in particolare, né dei passaggi Industrial che contribuiscono a rimandare, in maniera esponenziale, ogni atmosfera a qualcosa di disagevole e claustrofobico.
Serve solamente che vi dica, anche se siete scettici e poco convinti, che questo album vale certamente la fama e il prestigio che si è costruito negli anni passati ed in quelli presenti, molto di più rispetto a quanto i Tiamat poi, col passare del tempo comporranno, e dunque, a chiunque lo compri o se lo procuri, aguro certamente un tuffo nei sogni che questo lavoro sa generare.
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