Il fatto è che tutte le persone di questo mondo civile vanno al gabinetto, fanno la cacca, prendono la carta igienica o la carta del giornale o la foglia di una pianta e si puliscono il culo. Quelli che fanno la differenza sono solo quelli che, finita la suddetta operazione, aprono il rubinetto e si lavano le mani.
Al giorno d’oggi tutti fanno musica, un po’ meglio, un po’ peggio, ma le operazioni sono sempre quelle: le consolle digitali sono installate su qualsiasi computer, ci si impratichisce un po’ e si producono dischi a raffica con pochi spiccioli. Quindi chi fa la differenza? La differenza la fanno quelli che completano l’operazione con mastering e un editing di qualità e si sente, cribbio se si sente.
Mi è capitato, in questi giorni di sentire “Mockroot” un disco prossimo ai vertici della carriera di Tigran Hamasyan: ascoltare una tale qualità sonora, una pulizia degli strumenti che consente di distinguere ogni gesto, ogni intenzione musicale, ogni frammento di nota, è cosa rara e goduriosa.
Io ve lo consiglio questo disco, perché Hamasyan, grandissimo pianista di provenienza armena, ormai trapiantato negli USA, con questo lavoro ha abbattuto la staccionata che lo vedeva jazzista dai parchi risvolti rock. Qui spara fuori metal cupo e intransigente talvolta in linea con i Tool, pura lava magmatica con acuminate frecce di Zeuhl, scombinate follie che rimandano a Zorn e a Zappa, jazz di fabbricazione sperimentale e libertina e folk tagliato diagonalmente da istinti world music.
E non vi dico altro perché ve lo dovete scoprire, questo genio di Hamasyan.
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