Con questo secondo lavoro Buckley inizia ad affacciarsi alle sperimentazioni che lo consacreranno "navigatore delle stelle", lasciando la sua ombra scolpita tra le volte del cantautorato di ogni tempo.
Già i tempi delle canzoni iniziano a mostrarsi sempre più labili e malleabili, gli arrangiamenti diventano un'eco fitta dei viaggi nei meandri della droga: da ascoltare alla luce di questo la pomposa "Pleasant Street" con il suo riferimento evidente al tunnel della dipendenza e all'impossibilità di fare a meno di ciò che dona le immagini più vivide.
Tim è sempre accompagnato dal paroliere di fiducia Larry Beckett e il chitarrista Lee Undrwood, e per l'occasione presta la sua preziosa opera il suonatore di congas di Leonard Cohen: Carter Collins.
Quello che Tim Buckley compie in questo disco è uno degli innumerevoli passi avanti verso la sperimentazione pura, spinto dai suoi numi tutelari jazzistici quali Coltrane e Miles Davis colma le composizioni di repentini cambi di tempo, azzardi free-form e impennate nella psichedelia pura, giocando come un saltimbanco della voce nel carnevale delle ugole.
Brilla la purissima "Once I Was" che verrà ripresa poi dal figlio Jeff, come se tra i due fosse sempre esistito un misterioso e trascendentale cordone ombelicale: Tim omaggerà la famiglia abbandonata con "Dream Letter" e Jeff farà tesoro dell'eredità del padre nella sua breve carriera.
"Hallucinations" ci trasporta di forza in un mercato medievale dove i Jethro Tull suonano come ospiti; dove il tappeto dell'arpa e il gioco delle chitarre ci donano una parete riccamente frastagliata su cui disegnare i graffiti dell'immaginazione.
"I Never Asked To Be Your Mountain" è la dichiarazione di addio alla moglie e al figlio Jeff, giocato con eleganza da un canto disteso su un fitto martellare di percussioni e di chitarre: un inno liberatorio ma anche amaro dove l'abbandono può dare un senso di libertà acquistata ma anche di paura dell'ignoto. Questo è un brano dove il senso nevrotico della corsa si fa penetrante e sfiatante: un Inno alla Gioia in acido dove Tim quasi urla per non sentire le recriminazioni di che abbandona.
"Phantasmagoria in Two" è quello che dichiara genuinamente il titolo: una malinconica e fantasiosa canzone in 2/4 cantata con un falsetto incrinato appena dal pianto; anche qui il senso di moto è molto forte servendo su un vassoio d'oro il rumore del vento, lo stormire delle foglie suggeite dalla chitarra libera di Underwood.
Lee Underwood una volta dichiarò che era impossibile annoiarsi con Buckley sul palco, perché lui era sempre pronto a cambiare e a giocare coi generi a sperimentare con la sua voce là dove nessuno era mai arrivato prima.
La title track "Goodbye and Hello" è il corrispettivo su disco di questo canto libero, figlio dei suoi tempi lisergici e psichedelici, con trombe fiere che irrompono tra una strofa e l'altra, con i continui scatti rabbiosi che fanno virare la canzone in direzoni sorprendenti, incalcolabili e altresì molto spontanee, rendendo gioioso ciò che un momento prima era fosco e difficile.
Una volta una persona a me molto cara mi disse che la poesia per essere bella deve sorprendere, continuamente muovere la telecamera da uno scenario all'altro, lavorando sugli accostamenti di immagini e suoni per non annoiare ed entrare nel cuore.
Goodbye And Hello è una poesia.
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