"Nessuno è mai riuscito a creare il vuoto intorno alla voce come ha fatto Tim Buckley" 

"Tim fece per la voce ciò che Hendrix fece per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono". 

Quando ascolto Tim Buckley la sensazione che mi pervade è sempre la stessa: stupore misto ad un velo di tristezza.

Inizio ad essere proiettato in una specie di sogno, in una dimensione strana, dove tutto intorno sembra perdere i contorni, i colori si fanno più tenui, sfumano e diventano una cosa sola con la voce e la melodia che esce dalle casse.

Forse era proprio questo l'intento del navigatore tra le stelle: trascinare chi lo ascoltava nello spazio infinito, galleggiando nel vuoto, in assenza di gravità, accompagnato da una "voce" che attraversava tutti i possibili stati d'animo unita ad una musica strana, inusuale, fuori dagli schemi e da regole del pentagramma..

Qualcosa di ultraterreno, spirituale, magico.

L'anima si stacca dal corpo, ancora in vita, vagando sospesa in un limbo per tutta la durata delle composizioni che, una volta terminate, la lasciano a milioni di miglia da terra, senza via di ritorno.

Per me è questo Tim Buckley, un uomo che aveva un sogno tanto grande e "folle" da voler condividere con il mondo attraverso la sua musica e la sua voce, ma che il mondo, in gran parte, non ha capito e apprezzato fino in fondo.

Dopo le esperienze sperimentali più ardite di "Lorca" e "Starsailor", Buckley cade vittima del mercato discografico, che non realizza quanto sperato dalle catastrofiche vendite di uno degli album più interessanti, forse, del millennio, e non scrive più una singola nota per più di due anni, per poi riapparire sul mercato con questo "Greetings from L.A.".

Quello che mi passa per la mente ascoltando il lavoro postumo a "Starsailor" e conoscendo la storia di Tim è solo una tristezza infinita che lascia pochissimo spazio allo stupore.

L'imposizione è una delle cose più sgradevoli che un essere umano possa subire e, quando siamo di fronte ad un'artista come Buckley, diciamo che si può trattare di vero e proprio crimine.

Già dalle prime note di "Move With Me", con quel giro scontato blues di basso, batteria e piano, i coretti e tutto il resto, non posso che storcere il naso pensando a come siano stati scelti e imposti i turnisti e arrangiamenti con il solo ed unico intento di "imbrigliare" il cavallo selvaggio Buckley e consegnarlo una volta per tutte alla maggioranza del pubblico per ricavare il massimo degli introiti e spremere la gallina dalle uova d'oro fino in fondo.

"Get on Top" non fa altro che confermare ciò che già penso, un blues veloce dove Buckley sembra un bravo scolaretto che svolge diligentemente il proprio dovere.

Intendiamoci, la voce di Tim è sempre GRANDE, il timbro e la modulazione sono eccelsi, ma vederlo qui come un falco in gabbia è veramente triste.

Un lampo mi attraversa quando ascolto la perla dell'album "Sweet Surrender" e il mio animo si riaccende di speranza.

Quel bellissimo intro di tastiere e conga, quella malinconia di fondo, quella voce così evocativa, piena, profonda tanto da scavare l'anima, capace di volare e spaziare su ogni registro.

Molto gradevole, seppure un po' eccessivo, l'arrangiamento d'archi e l'orchestrazione del pezzo, che penalizza leggermente la prestazione vocale di Tim, qui davvero superlativo e leggermente fuori dagli schemi del disco.

In "Nighthawkin'", altro pezzo soul blues che riprende i canoni dei primi due, si possono sentire le conga, come in "Get on Top", dell'unico superstite del vecchio equipaggio: Carter Collins.

Il livello si alza leggermente con il pezzo successivo "Devil eyes", complice un discreto arrangiamento, per poi passare all'altra cosa interessante dell'album "Honk Kong Bar", sette minuti di voce, chitarra e hand clap, risultato di un taglia e cuci di oltre un'ora di jam session.

Il tutto si chiude con il pezzo più ruffiano a livello di arrangiamento "Make it Right", su cui preferisco sorvolare per non indispormi ulteriormente.

Che cosa si può salvare di quest'album?

Sicuramente "Sweet Surrender" e soprattutto la voce di Tim, che torna con dignità per riprendersi lo scettro di miglior folk singer mai esistito.

Buckley si era buttato con forza in questo nuovo progetto, aveva accettato di buon grado di indossare una maschera che nascondeva ciò che aveva dentro e voleva esprimere, ma ancora una volta il pubblico non ne fu entusiasta.

Da qui la discesa con i mediocri "Sefronia" e "Look at the Fool", per poi terminare definitivamente la sua corsa con un'overdose, a casa di un amico, dopo un concerto a Dallas, a soli 28 anni, nella notte tra il 28 e 29 Giugno 1975.

Non avevo neanche un anno quando Tim ha iniziato a viaggiare davvero tra le stelle, non potevo sapere che un giorno, ascoltando un disco che mi ha cambiato la vita ("Grace") avrei avuto il sommo piacere di scoprire che il padre di quell'angelo che fu Jeff Buckley, fosse uno dei più grandi cantanti della storia.

Forse il più grande..

R. I. P.

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