Un diciannovenne Tim Buckley fa il suo esordio solista nel lontano 1966, dopo una esperianza passata nei Bohemians in compagnia del futuro poeta Larry Beckett alla batteria, che qui lo accompagna nella stesura dei testi. La sua voce netta, capace di multi ottave, ma anche tenera ed eterea è l'elemento stupefacente di queste dodici tracce in bilico tra folk tipico di quegli anni (dalla copertina al Tim stesso che non nascose mai l'influenza di Bob Dylan), psichedelia (su tutte la straziante armonia interrotta di "Song Slowly Song") e influenze jazz, qui accennate (vedi "Valentine Melody"), che verranno poi sviluppate nei dischi futuri. Il quadro è ancora più stupefacente se si pensa che una tale maturità e complessità emotiva e musicale appartengono ad un ragazzo appena maggiorenne, autore di tutti i brani. Alcuni testi sono ulteriormente enfatizzati dalla vena poetica dell'amico Beckett, le parole escono dalle casse ed il mago Tim attira la tua attenzione modulandole mentre i brani si alternano in momenti elettrici, quieti e controllati e a volte a formare mosaici complessi di magica psichedelia, grazie anche al contributo di musicisti particolarmente dotati come Lee Underwood alle chitarre, che accompagnerà Tim Buckley nei futuri album e concerti. Al tempo bastò tale esordio per far capire a tutti che una quintessenza di cantautore si celava in questo ragazzo di Washington trapiantato nella California in fermento dell'epoca. Una voce fuori dal coro sempre in bilico tra fragilità, delicatezza eppure forza controllata, capace di aprirti abissi dinanzi e di farti prendere il volo un attimo dopo. Capace di ammaliarti e di farti credere di averlo accanto a te mentre lo ascolti, spirito affine, o di farti sentire infinitamente solo. Insomma ciò che succede a chi possiede la dannata fiamma dell'arte dentro di sè: e come da copione Tim Buckley ha impersonato il proprio ruolo fino alla sua prematura scomparsa.
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