Robocop! Lo avevamo soprannominato così per quelle movenze fluide e coordinate; i suoi arti come vecchi ingranaggi arrugginiti scaraventati in un pozzo di catrame e piscio, trascinati senza cura verso la luce del sole, asciugati su un tappeto di sabbia rovente prima di essere attaccati al torso. La negazione totale per lo sport. Eppure quando la porta della palestra si apriva quell'ammasso di legamenti ed ossa era già lì che correva, pronto per l'allenamento, sudato fradicio. E se a quel tempo mi accodavo agli altri nel deriderlo, contribuendo a rendergli quelle ore tedio quasi insopportabile, ora, ripensando ai quei tempi sbiaditi, la prospettiva cambia angolazione. Perché "Robo" ci metteva una passione ed un'energia che adesso, mentre la rivedo tra le pieghe grigiastre della mia testa, mi pare non solo commovente, ma eroica; certamente degna di rispetto e ammirazione perché al suo posto tutti noi, gli stronzi che lo deridevano, non saremmo resistiti che per una settimana.

Edward ha la leggerezza della gioventù nella sua agile camminata e dietro i Rayban ci sono occhi che vedono un futuro fatto di tappeti rossi, locandine e statuette. Nella sua mente di regista emergente non ci sono limiti essendo spinto dalla falsa e cieca consapevolezza di avere un talento unico per la settima arte e di dover, per forza di cose, diventare una conclamata star.

Burton diverte per lunghi tratti, ma sarebbe completamente fallace ritenere l’opera come una facile commediola che gioca sulla palese mancanza di talento del protagonista e sull’incapacità di vedere i propri difetti. Il film, al contrario, convince per saper essere al contempo commovente; riesce infatti a mettere in primo piano la forza, la passione e la devozione smisurata che Wood prova per il proprio mestiere: ci ritroviamo così in curva a fare il tifo incondizionatamente per le sue oscene pellicole sperando vivamente in un rincoglionimento generale del pubblico. In parallelo al binario principale Burton fa scorrere, ben visibile, il lato cinico e gelido della capitale del cinema che tenta di sbarazzarsi dell’inutile con un secco ed ingrato colpo di forbice. Hollywood quindi non solo come un cazzuto monte da conquistare, ma anche come una battaglia epica per tentare di resistere all‘assedio degli sciacalli che ti vogliono scalzare.

Ed è così, tra le vigorose spallate di uno che cerca di entrare e le tremule frenate di piedi di quell’altro che non vuole uscire, che si incontrano il bel protagonista e la vecchia e decrepita star dell’horror Bela Lugosi, ormai prossimo alla bara.

Il lavoro, girato in bianco e nero, alterna il ritmo frizzante e veloce delle speranze, puntualmente disattese, di Ed con il lento ma inesorabile declino dell’ex grande attore divorato dai debiti, dall‘alcool e dalla droga. Burton tra questi estremi cuce una commovente e leale amicizia che porta i due ad aiutarsi vicendevolmente per restare attaccati al loro sogno/incubo comune: Hollywood.

E’ assai probabile che i più giovani questa perla non l’abbiano mai sentita neppure nominare perché se si dico loro Burton prenderanno forma un pesce molto grande, una cioccolata, un pipistrello, un rasoio, delle forbici affilate, un tetro Natale ecc; non certo un uomo con un maglione da donna e reggiseno. Pur senza gli effetti speciali e quelle trame capaci di esaltare il genio visionario di questo scapigliato regista contemporaneo, “Ed Wood” resta un film di grandissima fattura. Lo pongo senza dubbio nella parte finale della irta punta della piramide della sua filmografia non solo per la prova gigantesca di Martin Landau, ma per quegli appaganti contorni agro-dolci, quasi poetici, capaci di descrivere al meglio il mondo particolarmente effimero, bastardo e ingrato del cinema con una dolcezza ed un tatto fuori dall‘ordinario.

Mi piace intendere questa pellicola come uno splendido regalo allo sfortunato protagonista, (giudicato nel 1980 addirittura come peggiore regista di tutti i tempi), creato appositamente per donargli quella fama che inseguì invano e con tutto sé stesso per tutta la vita.

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