Questo ragazzo mi piace.
Questo disco mi piace.
Lo ascolterò ancora. E ancora.
Dentro le sue canzoncine, dove frulla i pezzettini di cd trovati nelle ceste di offerte ai supermercati, c’è qualcosa che resta sospeso come una promessa che nessuno si sogna di mantenere.
E che lascia un po’ di spazio intorno, per sgranchirsi le gambe in una passeggiata tra i “generi”, con l’attitudine che piace a me, che prevede sbavature ed incertezze, sbalzi d’umore, zone irrisolte e piccoli lampi improvvisi. E non forzata dalla smania d’essere al posto giusto, nell’indecifrabile reticolo dove, quasi quotidianamente, qualcuno piazzerà la bandierina che designa la next big thing.
Ecco, sono un ingenuo. Ma a questo ragazzo ci credo.
Credo alle cose che racconta nell’intervista (che trovate in more info) che ho scovato cercando informazioni sul suo conto, dopo aver ascoltato “Gone Ain’t Gone”, comperato senza fare domande (oltre a: “dammi un disco che mi piacerà”) dal mio pusher vicino all’ufficio.

Oh, si. Beck, certo.
In certi momenti (ora, mentre ascolto, la traccia 17 che chiude il disco, "The More You Do" ad esempio) come fare a meno di evocare il suo nome?
Però, di nuovo, son d’accordo con il ragazzo: è il Beck che lui predilige, quello dei primi tempi, a camminare con lui. Con la stesso incedere naturale da viandante curioso e divertito, con la stessa leggera claudicante andatura del new hobo tra i solchi di vecchi vinili o tra gli scarti del mercato discografico, anziché sulla strada ferrata.
Ma nel succedersi di stati d’animo, ambientazioni, sonorità (eh si, tutti i suoni rubati si adattano perfettamente ai nuovi abiti che con essi Tim ha cucito) quest’esordio disegna i tratti di una personalità che evita, lungo il tragitto, di finire ingoiata dall’ampia ombra proiettata dal biondino.
E ne vien fuori un disco a suo modo omogeneo, nell’improbabile mistura, preparata con naturalezza e servita senza trucchi, di hip hop, folk, post questo e post quello, fate voi.
Aggiungo la solita manciata di samples, così vi fate un’idea meno farraginosa di quella che può sortire da queste righe.

Dice di essere troppo lento con le mani per scrivere canzoni che prevedano cambi di accordi molto veloci.
Non ho altro da dire.
Come mi piace questo ragazzo.

 


Nella traccia 6, “I’ve Keep Singing”, Tim usa porzioni di un discorso di Paul Robeson.
Si tratta di una figura che vale la pena di conoscere almeno sommariamente.
Ho trovato questo articolo che mi pare interessante.

 

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