Bene, questa volta cercherò di trattenere i toni estatici che di solito pervadono queste recensioni.
Hardin aveva 25 anni quando registrò questo esordio. Perché ho accennato prima a toni che di solito adotta chi parla di questa musica? Perché con questo album il nostro andava a far compagnia a Tim Buckley, Fred Neil, Dylan, Van Zandt. Le loro canzoni destano lacrime e pensieri assorti, e tutti salparono dal porto sicuro del folk per attraversare orizzonti che poi si sarebbero rivelati diversi per ognuno. Tim Hardin no.
Ho letto una volta (doveva essere Bertoncelli) che non amava quell'etichetta troppo in fretta appiccicata; si definiva più compiutamente un jazzista, un bluesman o perlomeno un aspirante tale - e questo sarà chiaro solo qualche anno più tardi. E poi, canzoni come Misty Roses, How Can We Hang On to a Dream, Never Too Far e la pluriconosciuta Reason to Believe denotano una sensibilità sbrigativa, vicina eppure diversa da quelle sopra citate. Canzoni scritte di getto, non rifinite: sembrano dei provini, e molto spesso lo sono. Quanto al jazz, While You're on Yor Way, How Long, Part of the Wind sono lì a parlare una lingua soffice, spesso mischiata col blues o con il country e bisbigliata dal vibrafono di Gary Burton.
Nel 1969 Hardin avrà la sua porta per la gloria: tra il folto ensemble di folksingers sul palco di Woodstock c'era anche lui. Avrebbe dovuto aprire il Festival, ma l'ennesima crisi da palco posticipò a notte inoltrata l'esibizione. Di lui restano poche immagini, gironzolare lungo il parco ancora una volta strafatto, biascicando frasi sconnesse. Sempre Bertoncelli scrisse che dopo le ultime note di If I Were A Carpenter cominciò a diluviare sull'immensa campagna: e il cerchio si chiudeva.
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