È quasi facile essere visionari, se ci si muove in immaginari creati da qualcun altro. I Timber Timbre non sono lisergici come chi gioca con le atmosfere floreali anni sessanta o quelle acide anni settanta, non scrivono concept su Alice nel paese delle meraviglie: i Timber Timbre hanno creato il loro, unico, immaginario.

Taylor Kirk recita le sue visioni e ossessioni in un baritonale solenne, elegantissimo ma emotivo, anche sfumato in nero a tratti - tra il Nick Cave più elegiaco e soprattutto il Richard Hawley più abbattuto (che cito su prezioso suggerimento di un amico) - e i Timber Timbre le ambientano in un'algida foresta canadese, tetra, lugubre, disturbante - non meno che nell'ottimo precedente Creep On Creepin' On - sciamanica e minimale. Sezione ritmica lignea e lineare, come al legno si riferisce il moniker. Nel senso che nelle timbriche del basso, del rullante e dei tom, sentirete il suono caldo dei legni, dei boschi: una manna per gli audiofili; una concrètesse probabilmente neanche cercata, ma ugualmente efficace. I pochi tocchi di acustica, i tremolii d'elettrica, i piani e gli archi, le voci campionate sono cesellati e hanno il potere di semantizzare i tanti silenzi, di non far sentire a proprio agio mai, neanche nel morboso caldo della title-track, che feticizza la musica nera mentre Kirk feticizza una donna nera, una sua allucinazione in forma di sotterranea Mardou, e la chiusura di sax dispari e matematico suona al contempo rassicurante e straniante, congelata. Se si sentisse la necessità di identificare i Timber Timbre, potrebbe forse andar bene un cantautorale/crooning indie folk a tinte western, soul e psichedeliche leggere. Ma non basta: Taylor Kirk sarebbe stato un personaggio di Cormac McCarthy, con quei baffi e quei capelli, se la frontiera fosse stata quella USA-Canada; i Timber Timbre sarebbero stati la colonna sonora ideale.

La marcetta lugubre degli intermezzi strumentali che fungono da refrain, in Beat the Drum Slowly, quella frase ascendente di piano vitreo e sintetico mentre l'accordo è fermo, quel deliro sul cimitero delle celebrità; il soul elegante di Run From Me con la sua autentica ossessione-compulsione calda e passionale - non quella posticcia della Run For Your Life lennoniana - l'epos malato di This Low Commotion, le tinte pulp di Resurrection Drive Part II e Grand Canyon; l'immagine ricorrente del cacciatore, nella poetica di Kirk, che torna potente in Bring Me Simple Man: i Timber Timbre hanno creato un mondo, un Canada parallelo in cui nessuno chiede scusa, tutto è lento e vuoto, tutti hanno voci profondissime e ossessioni sudate.

È uscito quest'anno, non gli rendo giustizia, è un grandissimo disco.


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