Il livello culturale di un paese si evince anche dalla qualità della musica che in esso è prodotta.
Senza cadere nei troppi luoghi comuni già esistenti, è bene sottolineare come il livello culturale italiano sia mediocre e, soprattutto in questa stagione, davanti alle prime luci del nuovo millennio, lo stato del nostro genio creativo è piuttosto arido. L’omologazione, la necessità di rendere tutto funzionale alle vendite, la tirannia della superficie, troppe sono ormai le scuse addotte per nascondere una povertà di talento e di ambizione ingiustificata, sono troppi gli alibi davanti a questa eloquente crisi.

Gli economisti, sono soliti dire che “la crisi è un punto di svolta”, certo, talora negativo, ma, non meno, speranza in una nuova stagione, in una nuova ripresa, in una nuova promessa. A pensare così, è rimasto solo chi si è fatto carico di continuare un lavoro in nome di prodotti culturali di qualità e, in particolare, mi sto riferendo ad Omar Pedrini. Personaggio incerto, nascosto, leader celato di uno dei migliori gruppi rock italioti, oggi produttore, regista e divulgatore di buoni prodotti artisitci, Pedrini dall’inizio degli anni ’90, sino ad oggi, oltre a perseguire obiettivi ambiziosi con i Timoria si è molto prodigato in nome della rinascita culturale italiana, come artista, ma soprattutto, come organizzatore e direttore artistico del Brescia Music Art, apprezzato festival delle arti e della contaminazione tra discipline diverse. Si potrà essere d’accordo o meno con i concetti di contaminazione e cross-over, ma non si può che convenire sul nobile tentativo di Omar di cambiare le carte in tavola, di poter riportare alla luce certe sfumature e dare visibilità a forme d’arte vissute e viventi nella penombra.

L’uscita de El Topo Grand Hotel, segue a breve una delle stagioni più fortunate del Brescia Music Art ed è un’opera di forte contaminazione, tra stili, tempi, idee e personaggi differenti, molto attesa dai seguaci più attenti e già inutilmente supportato dalla critica come migliore disco dell’anno ancor prima della sua nascita. I “nuovi” Timoria, quelli senza Francesco Renga, giungono alla loro seconda prova dopo l’album dai toni Pop, 1999. Giungono a El Topo carichi delle suggestioni e delle idee del leader Omar Pedrini, carichi di influssi esterni al semplice mondo sonoro, con un lavoro decisamente poco conformista, un concept-album difficile, che risponde al solo volere dei propri compositori, senza altre logiche.

El Topo è un film di Jodorowski del 1971. Il disco è un omaggio a quel film (la storia di una talpa che, abbagliata dalla luce, è costretta a rifugiarsi di nuovo sottoterra), con l’aggiunta di Grand Hotel, proprio perché la storia contenuta nel disco si svolge in un albergo sotterraneo. Una metafora pessimista, come il film, una storia visionaria, allucinogena che racchiude un cross-over di generi artistici che conducono il protagonista Joe al suo destino. Un viaggio nel tempo e nella crisi, superabile solo con la fuga, il disco è fuga nell’arte del povero Joe, è scappatoia magica da una brutta società e da un brutto momento storico.

Quanto sono lontani i Timoria; in un turbine di sensazioni miste tra amarezza per l’identità perduta e ammirazione per la nuova varietà dei suoni, per le molteplici idee, per la sincerità del prodotto, per il suono classico e d’avanguardia al tempo stesso. Nel disco Omar ha coinvolto numerosi artisti: Lawrence Ferlinghetti, testamento spirituale della Beat Generation, Alejandro Jodorowsky, poeta e regista cileno, entrambi presenti con reading di loro poesie; ha accolto suggestioni di diversa provenienza, influenze beat, il mitico Mork che viene da Ork, Ugo Tognazzi e qualche vecchio blues, melodie hip-hop e Pop anglosassone, Castaneda e una ricca sezione di strumenti a completare la band. Momenti di vera tensione, di impegno (Sole spento, La Febbre) istanti più leggeri e scanzonati in un bell’equilibrio.
Il viaggio si snoda in un mondo magico, in cui ci si sente oppressi e schiacciati da un "Sole in cui senti freddo” e dalla falsità. Unico riparo da questo mondo pare il pensiero, sicuro rifugio per Joe.
Solo grazie a un "Cielo immenso" si può dimenticare almeno per un attimo la tetra realtà che torna spesso nei 19 brani dell’album (dallo splendido e malinconico blues di "Vincent Gallo" sino a "Magico"). Il viaggio continua con "Neve", un uomo solo con se stesso che si ferma a guardare la neve che rende tutto più leggero e impalpabile e guardabili anche le cose più abiette. Con "1971", resoconto di una vacanza in terra olandese e “Sunday”, canzone decisamente leggera, ma molto gradevole, si respira un solo attimo incalzati dal giro di basso. "Magico" è, poi, uno dei momenti più intensi di questo lungo percorso atemporale: il vecchio Joe ha ormai imparato a restare solo con se stesso, non si spaventa più, ormai è diventato un "guerriero di città che vive il suo momento magico". Il senso di inquietudine che certe atmosfere e certi giri armonici contribuiscono a creare ("Febbre", ad esempio, riesce a trasmettere tutta l'ansia e la preoccupazione di chi soffre e non trova appigli in nessuno, grazie all'arpeggio della chitarra e al suono avvolgente del sax, “Sole spento” porta il dolore della soffocante esperienza carceraria), non si stempera mai, la grigia società in questo disco non ha soluzioni alternative, se non la fuga di Joe oltre i propri sensi, nel magico, nell’’interiore, nell’arte, nell’altrove Messaggio anche musicale, sonoro, indirizzato ad una società malconcia in cui dovranno essere gli artisti a farsi carico della crisi creativa e culturale ed iniziare a combatterla, prima dello Stato e delle istituzioni, indirizzato ad una società in cui la musica è suonata dai DJ; ecco allora i continui rimandi agli anni ’70, agli Hippies, al Beat, alla psichedelia. C’è un gruppo che non trova spazio nel suo tempo, un male che dalla notte dei tempi colpisce gli artisti più sensibili.

Un disco innovativo, difficile, libero da forme e schemi pre-stabiliti, lontano dal facile clichè del sequel (Viaggio Senza Vento II). Una boccata d’ossigeno in un ambito di ristagno, come il palcoscenico italiano di fine ‘900. Un disco ambizioso, come lo sono le opere concepite con la passione ed il desiderio di comunicare qualcosa. Non tutto è perfetto, anzi, molte idee e accostamenti sono addirittura pessimi, un po’ banali, ma contribuiscono in qualche misura a creare un aroma unico, un album dalla identità originale, riconoscibile benchè dai confini indefiniti.

“Il nostro pianeta è diventato così brutto che non ci resta altro da fare che fuggire” disse Pedrini al momento di presentare questo album. Mi chiedo, con tutto il rispetto, Omar oggi dove sia?


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