2016: arrivano nella mia città i “Tinariwen” e la mia conoscenza del gruppo di origine maliana è… nulla. Il concerto, per di più, costa 10€, ma si svolge in una piazzetta del centro, all’aperto (luglio) e quindi le note riverberano per il centro.

Mi incuriosisco, mi avvicino e faccio capolino con l’orecchio nella piazzetta, mi fanno presente che c’è da pagare il biglietto. Correttamente.

Faccio il “braccino corto” e dico, sorridendo imbarazzato, “ascolto un attimo, poi vado via”, ma non lo faccio, rimango lì, rapito, conquistato, ipnotizzato dalle percussioni, dalle chitarre stonate, dal clapping, senza capire una singola parola. Il sorriso ebete sparisce, guadagno la consapevolezza emotiva, la musica fa tutto il resto.

Blues, africano. Tuareg, mi dicono. Acquisto frettolosamente il biglietto per “vederli in faccia”, anche se dei loro volti non si vede molto, tutti coperti come sono. Poco dopo acquisto anche l’album, questo “Elwan” (“Elefanti”) che non mi volevano cedere. Trattativa complessa, perché non potevano concludere la vendita sul momento, pur avendolo prodotto, registrato e possedendone solo alcune copie fisiche dopo l’incisione avvenuta nella zona di Zagora, in Marocco, perché prima doveva passare dalla supervisione della casa discografica parigina e necessitavano del loro ok, che ne voleva l’uscita ufficiale nel 2017. Con un francese di non freschissima memoria, mi faccio capire e ne acquisto una copia, non sicuramente una di quelle andate poi in commercio, ma pazienza. Ho l’album. Contiene 11 tracce (ce ne saranno 13 in quello andato in vendita dal 2017, con due ghost tracks del brano “Fog Edegàn”).

Prima di partire con l’ascolto devo solo capire “chi” ho acquistato, il “perché” lo scoprirò poi.

Il “chi” viene semplice di questi tempi. Mi basta guglare (o googlare, se preferite questa “forma verbale”) e scopro Ibrahim Ag Alhabib (chitarra e voce) e tutta la sua incredibile e suggestiva storia di vita, che, per fortuna, prosegue nonostante le guerre da trincea e le milizie del terrorismo (dis)organizzato. Chi non conosce questo simbolo della popolazione maliana è invitato a fare come ho fatto io per sopperire a tale mancanza, ne val la pena.

Il nativo di Tessalit, montagnosa zona nel nulla del deserto del Mali, non è solo in questa avventura musicale, ma al suo fianco ha un nutrito gruppo di musicisti che lo accompagna, trovati per lo più tra i campi militari ed i suoi successivi movimenti per l’Europa (principalmente Francia e Belgio).

Ci sono Alhassane Ag Touhami (chitarra e cori), Abdallah Ag Alhousseyni (chitarra e cori), Eyadou Ag Leche (chitarra baritona, chitarra acustica, calabash, voce e cori), Said Ag Ayad (percussioni e cori), Elaga Ag Hamid (chitarra e voci), Abdallah “Intidao” Ag Lamida, che nel 2015 è scampato dalla prigionia di fondamentalisti islamici per diversi mesi, sano e salvo (chitarra e cori), Mohammed Ag Tahada (percussioni), Yad Abderrahmane (chitarra e voci), più altri membri che generalmente non vanno in tour con la band.

Non mi sento di fare un’analisi tecnica di questo gruppo e di questo disco, come invece ho fatto sino ad ora, non perché non ce ne siano le possibilità, ma perché sono le sensazioni che provoca l’ascolto di questo album le principali protagoniste di questa opera, assieme ai testi, che sono riuscito a scovare qua e là, un po’ in inglese ed un po’ in francese, che sono semplici e pragmatiche poesie di cui nutrirsi in loop.

Malinconia (Ténéré Takhal - Cos’é accaduto al mio deserto). Manca il deserto nel rock-tuareg di “Sastanàqqàm”, eccome se manca.

Ténéré sastanàqqàm / Deserto, ti domando

Indek immik was mad nàrti / Come io e te potremo rimanere uniti

Nàkk d- kàmm wàr nànmàksàn / Senza odio, l’uno per l’altro

Nàkk idjodadàgh nilmàd tekle / Posso dirlo che ho viaggiato per tutto il mondo

Isikilàn djer ikallàn / Ti giuro, fino a quando sarò vivo

Ténéré Ténéré / Deserto, Deserto

Ténéré naghehàd-kàmm / Deserto, tornerò da te

(Sastanàqqàm – Ti domando)

Gioia, di essere vivi (“Hayati” - La mia vita), di poter fare musica liberi (“Imidiwan n-akal-in” - Amici del mio paese) e non essere costretti ad imbracciare ancora le armi, sempre credendo nell’unione del popolo berbero (“Ittus” - Il nostro obiettivo), la voce di Mark Lanegan (ex-leader degli “Screaming Trees”) che sussurra la speranza in “Nànnuflày”, le chitarre posate, non eccessive di Kurt Vile e Mike Sweeney in “Tiwàyyen” (Le colline) e la solita voglia di non arrendersi (“Assàwt” – Voce) e dare seguito alla rivoluzione culturale in Africa.

Legh amidi-nin / Colui che trovi in solitudine

S-inta niflas / É prigioniero dell’egoismo

Hi isaswen ulh-in / Ho un amico sul quale posso contare che mitiga la sete

Alwàqq d-intas / Che brucia nel mio cuore

(Nànnuflày – Soddisfatto)

L’elefante (“Elwan”) ha memoria, così come i “Tinariwen” (“I deserti”) che non dimenticano chi sono, da dove arrivano e dove vogliono tornare… a proposito di memoria...

“Perché” ho acquistato questo album? Perché dona fiducia. A chi ha tutto da perdere nella propria vita, grazie alla musica, in questo specifico caso, può trovare una via, un mezzo, un linguaggio per comunicare con tutti, in tutti e cinque i contenenti. Un idioma chiamato “speranza”, che possa far cambiare il nostro mondo, dove ce n’è profondo bisogno, permettendo al contempo un mantenimento e consolidamento delle proprie radici, del proprio linguaggio, dei propri costumi e lottando per il concretizzarsi del sogno: rispetto, identità e libertà.

Un po’ più di vissuto, un po' meno recensione. Perdonatemela, se potete

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