Entrano in silenzio. Lo sfondo nero. Pulito ed elegante. All’ estrema destra in seconda fila la batteria. Accanto il bassista. Poco più avanti il chitarrista mancino che indica verso il centro, verso Stuart Staples che suona pure lui una chitarra. A sinistra il violinista e dietro di lui le tastiere.
Ma è solo alla quinta canzone che mi scuoto dal torpore. E sono i brividi veri di “City Sickness”, dal primo e ineguagliato bellissimo album omonimo. Il resto del concerto non decolla, già la canzone successiva C.F.G.F, da Simple Pleasure, mi ricorda troppo “People Ain’ t No Good, del re inchiostro. E mi ricordo che da lì erano partiti, dai pezzi più lenti di Cave, da quella “The Ship Song” sul cui lento incedere epico avevano costruito tutto il loro primo e bellissimo disco, risultando però originali, per la bellissima voce baritonale di Staples, gli inserimenti di violino e pianoforte e le bellissime canzoni. Vere.
Sono prigionieri del loro stesso manierismo; il loro peccato originale, tutte le canzoni sono prevedibilmente uguali, svuotate di poesia, tutte si spengono stanche, per la loro struttura potrebbero girare ancora in un chorus, ancora in un verso, ma non lo fanno. Ci si chiede perché non abbiano fatto un ulteriore movimento.
Siamo in presenza di buon artigianato, arts and crafts, ma i brividi mancano. Troppo prevedibile ogni ingresso della bella voce di Staples, troppo prevedibile l’ onnipresente linea melodica di violino. In ogni canzone.
Ne sembrano consapevoli, tanto che per rompere il tutto fanno cantare ben due canzoni al violinista, con una voce flebile che di fronte al baritono caldo di Staples scompare, annullata. Il pubblico lo applaude per averci provato probabilmente. Quando in un episodio o due alzano il ritmo ecco di nuovo la meraviglia, ma dura poco. The Tindersticks una band creata su stilemi caveiani che dopo il rimo album era già prigioniera di se stessa. E il manierismo fine a se stesso non è mai buona cosa. E stasera ne è stata la dimostrazione.
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