Questo brutto ed inguardabile film - lo dico subito, per evitare strumentali polemiche ad opera dei soliti Soloni - è espressione di un duplice mistero, mistero che tocca le esistenze del suo regista e della sua protagonista. Riflette il mistero della vita, delle occasioni sprecate, delle possibilità di rilancio, delle mancate aspirazioni, dei destini che si incrociano e si dividono.
Tinto Brass e Claudia Koll: l'uno sanguigno veneziano, regista arrabbiato negli anni '60, intellettuale fuor dalle righe con il gusto della provocazione, e della somma provocazione di sprecare una vocazione autoriale (francesizzante) nella realizzazione di film dapprima destati a scandalizzare (Salon Kitty, Caligola), poi a sfruculiare le beltà di procaci attrici italiche (La Chiave, Miranda, Capriccio, Paprika), successivamente a toccare i lidi del soft core più trito con ammiccamenti alle bellezze dell'est (Fermo posta, L'uomo che guarda) o il meta cinema sferzante e trash con il recupero di attrici di prosa in versione sadomaso (Senso 45); l'altra borghese romana, attrice di belle speranze, tentata dalla via del successo più semplice, mettendo in mostra una pelle di luna ed un fisico statuario, una bellezza non scontata, quasi esotica, successivamente vocata all'intrattenimento televisivo con fiction a sfondo giallo per famiglie (Linda e il brigadiere, Valeria medico legale), e di poi ascesa, non senza travaglio personale, ad una maggior consapevolezza, ispirata da un sentire religioso che l'ha portata dapprima a divulgare la Parola, scegliendo di comparire solo in film in cui si tratti di - direttamente o indirettamente - di Fede.
Sembra di essere innanzi ad un Giano bifronte specchio della nostra Italia: il vizio contrapposto alla virtù; il talento sprecato opposto al talento consapevole delle sue mancanze; il mondo materiale opposto a quello spirituale, quasi a riecheggiare l'antico dualismo fra aristotelismo e platonismo; i sensi opposti allo Spirito; il molteplice, l'iper attivismo, la promiscuità, la decadenza opposti all'Uno, alla contemplazione, alla castità, alla conservazione di ciò che non è transeunte; la vecchiaia e la morte, in una sorta di cupio dissolvi, contrapposti alla eterna giovinezza del mondo spirituale, alla promessa di una immortalità.
A quali approdi ci conduce, rimeditato oggi, questo esile, scolacciato, raffazzonato film, in cui una sposina disinibita lascia provvisoriamente il marito per vivere svariate avventuare sessuali, fra sodomie, legami incestuosi, rapporti al limite con preti incontrati in un rave party, con anziani datori di lavoro, per ricongiungersi conclusivamente con il marito, chiamato ad accettare le bizzarrie della moglie, il fatto di non essere il solo, anche se l'unico.
E' curioso come questo superficiale lavoro, ripensato col senno di poi, alluda implicitamente ai dualismi accennati poc'anzi, filtrati nell'ottica del rapporto di coppia: la visione, maschile e maritale - apollinea direi - , votata all'unità, all'unicità dei rapporti, alla repressione dei propri ardori ed istinti in difesa di una razionalità certo astratta ed imposta, ma votata in ultima analisi alla conservazione di sé; la visione, femminile e muliebre - dionisiaca probabilmente -, votata al molteplice, all'esperienza di sé mediante una discesa nel mondo, alla dispersione della propria persona e del proprio spirito ed alla trasmutazione della propria natura.
Nato male, invecchiato peggio, questo film oggi ci fa riflettere, non per quanto è stato (poco) ma per quanto ha dimostrato nel corso del tempo: ecco come un mero esercizio di stile, vacuo o privo di contenuto, può diventare, nel filtro dell'interprete, nell'ambito di un circolo ermeneutico à la Gadamer, l'occasione per uno sguardo più profondo sul mondo e su noi stessi. Quasi come un capolavoro. Ma "quasi", stiano tranquilli i Soloni.
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