DAL VOSTRO INVIATO SPECIALE HAPPY PIPPO. 4 settembre 2007, Mostra del Cinema di Venezia, retrospettiva "Spaghetti western".

Quando non deve fare il personaggio del "Grande porco", Tinto Brass si rivela essere un vero uomo di cinema, appassionato, sincero, competente ed umile. Invitato il 4 settembre a parlare del suo unico western, "Yankee, l'americano" (1965), al contrario di altri non ha disconosciuto la pellicola anche se, paradossalmente, all'epoca tolse la firma in quanto venne brutalmente manipolata dalla produzione. L'idea di Brass era quella di fare un film a ideogrammi, dove il dettaglio stava per il tutto. Per mostrare un cavallo bastava il particolare di un orecchio o uno zoccolo e così via...

Ciò è solo parzialmente rimasto in "Yankee", nei suoi momenti migliori; la trama è sostanzialmente la solita minestra: uno straniero (Philippe Leroy) arriva in un villaggio dove spadroneggia la banda di un tirannico messicani, Concho, (Adolfo Celi). Inutile dire che Yankee dopo varie traversie e alti e bassi sgominerà la banda, con duello finale tra lui e Concho (peraltro non il solito duello; niente deguellos, niente primi piani). Lasciamo pedere la trama, perchè a questo punto il modulo fisso dei discendenti di "Per un pugno di dollari" può essere visto come "variazione sul tema di", implicazioni di cassetta a prescindere. Brass è stato ed è un autore, comunque lo si voglia giudicare. Un autore personale, cresciuto alla Cinemateque di Parigi e sotto la guida di Alberto Cavalcanti; un esperto di giochi luministici e di linguaggio, una faccia serena e giocosa della nouvelle vague. In "Yankee" c'è il parziale tentativo di riportare le tavole del fumetto in pellicola, cosa avvenuta in maniera libera e sostanziosa nel seguente e certamente amato da Brass "Col cuore in gola", dove ci fu la collaborazione con Guido Crepax per creare il mix tra immagine e disegni e pensare lo storyboard come la partizione delle impaginature dei fumetti. Naturalmente "Yankee" risulta essere un tentativo parzialmente riuscito, un film comunque di impianto mediocre, anche se sostenuto dagli ottimi dialoghi del grande sceneggiatore Giancarlo Fusco, dalle belle luci di Alfio Contini (prevalenza di blu di prussia e neon rossi e arancioni) e dalle discrete musiche di Nini Rosso.

Memorabili, anche se "a soli" in mezzo alla trama, certe scene, come la folgorante luce rossa che illumina Yankee legato alla ruota mentre la donna di Concho si aggrappa a lui nel momento in cui il bandito rivela di aver capito che la donna era stata a letto con il pistolero, o la tortura dello scorpione vista da terra attraverso una base di vetro per riprenderla da sotto. O anche i dipinti in stile messicano, tutti autoritratti di Concho, che Yankee disseminerà per il paese; uno dei momenti ironici in un film comunque sotteso da una moderata ironia. A volte, rivedendo anche un film minore come questo nella carriera del regista, si ha l'impressione che Brass non si sia mai preso realmente sul serio come autore nè abbia creduto sino in fondo al suo potenziale talvolta notevole; preso com'era tra la fustigazione dei costumi prima e, nella fase senile, lo slacciamento dei corsetti poi. O forse è solo un piccolo maestro che più di così non avrebbe potuto dare. Ritornando al film l'interpretazione di Leroy è appena discreta in quanto fuori parte (è vestito come Fonda in "C'era una volta il west"); Adolfo Celi gigioneggia nel pesante trucco, reduce dai trionfi di "Thunderball". Un grande attore qui al minimo della resa, sempre sufficiente. Comprimari efficaci come i soliti Jacques Herlin o Osiride Peverello. Due donne, belle gnocche (in fondo sempre di Tinto Brass si parla), semplici figurine dalle carni tornite.

Particolare di importantissimo rilievo; Brass ha nominato solo una volta Tarantino. Un record, visto che tutti se ne riempiono la bocca.

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