Andate in New Jersey con un frullatore gigante e infilateci dentro Jeff Mangus, Bright Eyes, Replacements e Bruce Springsteen: quello che ne esce dovrebbe somigliare più o meno al secondo album dei Titus Andronicus.
Ad un anno dal primo, rabbioso "The Airing Of Grievances" la band capitanata da Patrick Stickles si fa largo a spallate, pogando, tra i migliori gruppi degli ultimi anni rivelando le sue vere intenzioni e le sue reali capacità: dieci brani, dieci bombe che vanno a comporre un ambizioso concept album incentrato sulla Guerra Civile americana, tema estremamente inflazionato ma che viene analizzato e sintetizzato da liriche sempre lontane da qualsiasi retorica o banalità urlate a squarciagola su un letto di chitarre e chitarre.
Una catarsi di umanità persa e ritrovata che passa per power ballads, anthems punk rock ed epiche suite di distorsioni e country malato scandite ora da ritmi frenetici ora da marce militari.
Le parole di Abraham Lincoln che aprono il disco suonano come un manifesto di intenti (“If destruction be our lot, we must ourselves be its author and finisher”): siamo un gruppo punk, spogliati da stereotipi e travestiti da supereroi americani. Dà il via alle danze la cavalcata di A More Perfect Union, un ascolto facile e coinvolgente ma che con i suoi cambi di ritmo ben introduce alle atmosfere dell’album, per approdare ai due minuti scarsi di pura energia di Titus Andronicus Forever, martellante inno punk al grido ossessivo di “The enemy is everywhere!”, con tanto di mini solo di chitarra che suona tanto come una presa in giro.
I due brani successivi preparano l’ascolto per il vero nucleo dell’album: No Future Part III riprende il discorso lasciato nel precedente lavoro della band (No Future Part I e No Future Part II, vale a dire il meglio del disco precedente) a sottolineare, qualora non fosse chiara, la continuità nell’evoluzione del sound della band, mentre Richard II ci riporta alle nuove forme a colpi di batteria. Due ottimi pezzi se estrapolati dal contesto ma che si riducono a sfondo, quasi a puri riempitivi se paragonati a A Pot In Wich To Piss, migliore canzone dell’album che tra melodie e arrangiamento raggiunge una perfezione formale che riassume l’intero "The Monitor". Il crescendo di chitarra in controtempo ed il passaggio di pianoforte a 5:00 (il trillo sembra campionato da Ray Charles) sono i quaranta secondi più geniali del disco e fungono da spartiacque, creando uno spacco definito tra il “prima” e il “dopo”, attraverso il quale tutto viene traslato ad un piano più elevato: questo momento conferma che non è la mera durata dei brani ad essersi espansa rispetto a "The Airing Of Grievances", ma che si è di fronte ad un progetto più maturo e completo.
Da qui in poi si resta stregati.
Four Score And Seven inaugura la seconda metà dell’album con un incedere solenne che si scatena in un’espolosione lo-fi di trombe e cornamuse, otto minuti in cui si trova di tutto, potenza in formato tre quarti, velocità e poesia nei testi.
Theme from Cheers, unico brano interamente ”allegro” che arriva letteralmente a divertire con la festa di chitarra finale. Come unica nell’album è anche To Old Friends And New, la sola canzone lenta tra le dieci, cantata dalla chitarrista Amy Klein (che ha lasciato la band poco dopo aver completato le registrazioni) ci conduce mano nella mano fino al momento parodistico di … And Ever, ripresa in lo-fi di Titus Andronicus Forever, trasformata in un boogie sfrenato grazie all’aggiunta di pianoforte e sax.
Di nuovo le parole di Lincoln introducono la suite finale, The Battle Of Hampton Roads, un interminabile brano che è una preghiera, un campo di battaglia e una canzone d’amore, il tutto concluso con un’epica quanto, c’è da dirlo, sovrabbondante chiusura strumentale.
La prova che si può fare pura melodia senza essere banali è qui, davanti agli occhi di tutti.
I Titus Andronicus superano a pieni voti lo scoglio del secondo album, bestia nera per innumerevoli artisti che dopo esordi convincenti si lasciano trascinare dalla smania di produrre a tutti i costi pur di restare in primo piano, a scapito della qualità.
Si emancipano da quella che non era banalità, ma nudità delle composizioni precedenti, mantenendone il nucleo nervoso e irruente, addomesticano la furia e ne smussano gli spigoli per erigere muri di suono che racchiudono un’opera di ampio respiro che brilla sotto quasi ogni punto di vista: un disco coraggioso, maturo e completo che lascia ben sperare per il futuro di una potenziale nuva bandiera del rock americano propriamente detto.
Carico i commenti... con calma