Mezzo addormentato sbadiglio, in attesa che il caffé mi faccia passare quest’ossessiva voglia di stropicciarmi gli occhi di continuo. Così senza una particolare meta, vado in macchina alla mercé delle lingue d’asfalto deserte, abrasive e piene di ghiaino e sale che mi si parano davanti in sinuose esse. Il parabrezza ha ancora un bel po’ di ghiaccio sul lato del passeggero; quello che pigramente non ho voluto togliere e così mi devo chinare per vedere bene tutta la carreggiata. Rimane nel mio campo visivo per un istante: un lasso di tempo comunque sufficiente per farmi tornare indietro. Abbandonato, vicino al Centro raccolta materiali, eccolo lì un tavolo. Ha addosso uno spesso strato di brina alto un paio di giorni, che non sembra minare la sua struttura possente. Mi guarda come un condannato a morte che non ha la minima voglia di finire in una manciata di segatura. Mi piace.
Entro nel solito negozio e prendo in mano il plasticoloso quadrato. Leggo il titolo tamarro e strafottente con aria incuriosita; scandendo nella mente le parole. “Give Me The Fear”. Mi scappa naturale una risata e sebbene abbia spalle girate rispetto al bancone so che lui, stronzo avido, è lì che si starà stropicciando le mani come una mosca e già lo sente l'odore della filigrana.
La mano accarezza il legno gelato ed è una piacevole sensazione. Guardo le gambe. Tozze, regolari, per nulla affusolate ed eleganti, sono pure corte: così, ad occhio e croce, direi che raggiungono a stento i 4 minuti. A loro favore si poggiano su un hard rock d‘annata che difficilmente le renderà preda di termiti nel tempo. La produzione è sporca e per nulla patinata. Proprio come piace a me in quanto capace di far sentire in modo pieno tutto il bel grattare delle chitarre e il picchiare della sezione ritmica. Faccio il giro del tavolo. Ci devono avere usato tanto olio di gomito e carta vetrata per togliere le schegge di questo nodoso pezzo di legno irregolare e pieno di venature più o meno profonde. Come la voce tagliente del leader della band Steve Lomax; energica e capace di sposarsi con il riffing elementare: vera e propria colonna vertebrale di ogni pezzo della scaletta.
La tavola è spessa e solida. Ci potrei perfino salire in piedi e saltare se solo lo volessi. So che quelle gambe mi reggerebbero. Non è stato fatto con il cuore più tenero degli abeti della Val di Fiemme: quelli, tanto per intenderci, che hanno regalato al mondo gli Stradivari, ma con solida arte montanara fatta per durare nel tempo resistendo alle intemperie e alle escursioni termiche. Granitico Hard Rock anni ’70, insomma, in pieno stile primi AC/DC, Thin Lizzy, Kiss per un disco del 2005.
Lo prendo e lo dilanio questo cellophane. La stube finalmente tuona e rimbomba di "What The Hell" e "Get’em Off": prendo un racchetta da tennis e mi trasformo nella patetica imitazione di Angus Young improvvisando accordi ed assoli sul grip. Cerco pure di rincorrere le strofe, ma le mie tenere e fragili corde vocali invocano pietà ed alzano bandiera bianca in cerca di acqua. Il telefono squilla: non ci penso minimamente ad alzare la cornetta ed interrompere il giubilo sonoro in un continuum che non prevede pause e riempitivi di sorta. La forza della scaletta consta nella facilità d’esecuzione con un paio di chitarre, un basso e una batteria senza sinth, elettronica, tastiere e orchestre sinfoniche. Trasuda passione: quella vera che spinge un quattordicenne a iniziare a suonare e sognare. Non ci vuole Nostradamus per capire che se questo debutto fosse stato sponsorizzato decentemente “Do You Wanna?” e “Johnny Don’t Wanna Ride” avrebbero fatto saltare e battere la mani ad una platea sterminata. “Come On Baby” e “Teenage Screamers” la stessa massa l’avrebbero probabilmente fatta muovere in modo ipnotico con un paio di mid tempo massicci che sarebbero diventati calamita per i loro piedi. Ma così non sarà mai.
Lo guardo con fare compiaciuto. Ci sta proprio bene questo obsoleto bisonte ligneo in mezzo alla stanza, con la stufa e tutto il resto. Nel salotto dei miei, 2 piani sopra, un tavolo di vetro pesante e dalle linee eleganti ride. Lo prende in giro. Si pavoneggia, con altezzosa superiorità, avendo il privilegio di poter essere il poggia-tazzine pregiate ed assistere così a misurati discorsi radical chic. Lui, lo sgraziato mammut, invece sarà condannato a prendere botte nella mia tana per serate alla morra e verrà abbellito con sangue d’uva, liquido ambrato e cera di candele. Potrei provare a smussarne la rudezza, mi dico, mettendoci una tovaglia. Premo il tasto skip alla ricerca di una ballad melodica verso il fondo del disco; una di quelle coperte di pizzo tutte uguali e da MTV. Invano. Ai Tokyo Dragons non è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di dare alla luce una song che non sia festaiola, rude e dal fare dinamitardo per carica sonora profusa.
Sì, potrà essere desueto e fuori moda, derivativo e figlio di un tempo oramai andato ma “Give Me The Fear” è un disco che ho apprezzato oltre ogni più rosea aspettativa. Non so se possa essere l’inizio di una carriera lunga e piena di bei lp per questi 4 inglesi. Ne dubito fortemente: è molto più triste e probabile che il tavolo rimarrà ai lati di qualche strada poco battuta e diventerà un sacco di trucioli. Prenderà polvere in qualche angusto negozio, ed è un peccato.
ilfreddo
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