Tom Verlaine cambia, e questa è la notizia principale. Ai tempi dei Television dopo la luccicante pietra miliare "Marquee Moon" classificabile ai livelli del diamante seguì la copia sbiadita "Adventure", più o meno alla stregua del topazio; dopo due album solisti gemelli ("Tom Verlaine" e "Dreamtime") seguì una terza pubblicazione vogliosa ma non del tutto efficace ("Words From The Front"). Ed allora che fare? Starsene tranquilli nel proprio recinto coccolando quello zoccolo duro di seguaci sempre ben disposti a rispondere agli ululati della chitarra o provare a sorprendere un po'? Ogni persona intelligente, dove "intelligente" non significa "saggia", sceglierebbe la prima opzione, ed ecco che lo zio Tom si dimostra autore di prima classe, chitarrista eccelso e non per ultimo persona d'intelletto.

"Cover" esce nel 1984 e il paragone con il suo diretto predecessore viene naturale: se il disco del 1982 iniziava con una fotocopia di un duplicato di una riedizione del proprio stile ormai consolidato (l'inutile "Present Arrived") senza lasciare troppo spazio all'immaginazione, ecco che i toni soffusi di "Five Miles Of You" lanciano un segnale chiaro: non ho più voglia di accontentare la vostra sete, giudicatemi male se siete capre, giudicatemi bene se siete leoni. Chi è leone capisce che la chitarra tanto cara agli amanti del signor Miller sta sempre dove l'avevamo lasciata, sempre lì a generare quei ritmi ripetuti senza sosta fino all'ipnosi, solo il tutto è condito un po' di più dagli 80s in pieno corso. I sintetizzatori, dominatori incostrantati del decennio, si intrufolano di soppiatto anche nel quarto lavoro solista di Verlaine e spuntano come funghi ovunque si volti lo sguardo: "O Foolish Heart" è un'ironica quanto dolorosa autocelebrazione, riprende quel lato giocoso e depresso assieme dell'artista più capace della New York post-punk, allo stesso modo "Let Go The Mansion" si aiuta coi suoni elettronici per mascherare una chitarra fino ad allora fin troppo in primo piano.

Gioca, Verlaine, e gioca bene, non c'è che dire. Quello che sorprende è la capacità di mutare pur mantenendo una propria identità e dignità, il cambiamento è mascherato da rivestimenti sonori concreti ma non immediatamente evidenti: dopo un primo ascolto, infatti, si è portati a pensare che questo sia in realtà solo un altro disco di Tom Verlaine. Dopo il secondo ascolto ci si accorge che nella frase precedente la parola sbagliata è "solo". "Miss Emily" così distante, "Travelling" così funk, "Dissolve/Reveal" così incastrata negli anni 80, tutte queste inizialmente non danno l'impressione di seguire un qualche segnale di svolta nel sound del glaciale cantastorie della Grande Disillusa Mela, il suo cantato è sempre lo stesso ma a questo è impossibile chiedere un cambiamento così come non si chiede a Brian May di tagliarsi i capelli, ciò che risulta innovativo standoci attenti è il contorno ripieno di suoni freddi d'altra fattura, non più la sola chitarra a dettar legge. I nostalgici comunque hanno modo di consolarsi con "Rotation" (che dopo "Elevation" e "Penetration", ci sta) mentre la conclusiva "Swing" inizia con un parlato figlio degli esperimenti del suo predecessore, perchè "Words From The Front" fu comunque un primo sguardo verso altri orizzonti, per terminare con un'allegra quanto fredda e melodica retorica sull'amore metropolitano, che non la si strova nel testo bensì nell'atmosfera d'asfalto che sprigiona dall'andamento lento della musica. Bei cazzi, quelli dell'innamoramento per la propria tristezza.

Questo è senza dubbio il disco più interessante di Tom Verlaine dai tempi degli esordi, la consapevolezza che ripetersi fa male e che c'è sempre, e dico sempre, bisogno di rinnovarsi per non annoiare. Concetto da persone intelligenti.

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