Io l’estate del 2004 me la ricordo piuttosto bene: avevo da poco compiuto 15 anni, ero riuscita a chiudere l’anno scolastico (V ginnasio) con la rispettabile media dell’8, e nel sinedrio delle virago del mio dojo brillavo per essere quella che era riuscita nell’impresa di battere il fratello maggiore con un sankaku-jime perfettamente eseguito (non me lo ha ancora perdonato, a distanza di 17 anni).

Stefania, la prof di italiano, era una di quelle insegnanti purtroppo sempre più rare che vivono la propria professione come una vocazione più che come un onere. Quel pomeriggio di luglio aveva invitato me e altre due compagne a casa sua per un tè; le nostre chiacchierate nel gazebo del giardinetto della sua villa a schiera erano diventate un appuntamento fisso ormai, solitamente accompagnate da dell’ottimo jazz d’antan in diffusione dalle casse. Quel giorno però la musica era diversa…
Quella voce cavernosa, calda e terrorizzante allo stesso tempo, mi catturò all’istante.
Incuriosita, domandai alla prof di cosa si trattasse. “Tom Waits”. Mai sentito. C’era qualcosa in quella musica che mi catturava, qualcosa di atavico, di remoto e di eterno allo stesso tempo. Mi piaceva? Sì? No? Non avrei saputo dirlo sul momento, ma quel ruggito catarroso continuava a risuonare nella mia testa anche lungo il tragitto verso casa e nei giorni seguenti.

Decisi di fare visita al mio spacciatore di dischi di fiducia (ebbene sì: nel 2004 il p2p non era ancora esploso come avrebbe fatto da lì a qualche anno e lo streaming era pura utopia, quindi un’adolescente che voleva un disco, nella maggior parte dei casi, doveva comprarselo); cercai quel nome navigando fra la polvere degli eoni che ricopriva le coste dei cd...Eccolo, è lui! “Tom Waits, Blue Valentine”.
La copertina evocava malinconia e solitudine, la stessa malinconia e la stessa solitudine che in quel periodo ricercavo con assiduità, quando i sabati sera li passavo a casa con le cuffie e la musica sparata nelle orecchie e il rumore della città mi sembrava così lontano, anche se sarebbe bastato aprire una finestra per avvertirlo nuovamente…

Tornata a casa, inserii il cd nel cassettino del lettore, e le note di Somewhere mi sembrarono così familiari. Come era possibile? Al secondo ascolto, il primo dei quali molto distratto fra l’altro. Doveva esserci un’altra spiegazione. E infatti...Allo scadere dei 49 minuti di durata dell’album la trovai: Blue Valentine era per me la concrezione di tutti gli umori, i simboli e gli stereotipi attraverso i quali negli anni avevo costruito la mia idea di America, certamente mutuata dall’immaginario che la capacità mitopoietica di Hollywood aveva contribuito a diffondere. Tom Waits era spostamento e condensazione -per chi avesse familiarità con il lessico psicanalitico- di mille altri nomi, tutti ugualmente significativi per la storia e la cultura popolare di un Paese e di un secolo, o per lo meno dei primi ¾ di tale secolo. Jerome Kern e Cole Porter, Rodgers e Hammerstein, Gershwin, Busby Berkeley e Vincente Minnelli, B.B. King, Frank Sinatra...1000 nomi che all’epoca appena avevo sfiorato e che oggi vorticano nella mia testa quando riascolto questa musica.

Non starò qui a fare classifiche o a elencare i titoli di un disco dove ogni brano è uno scrigno perfetto (forse l’unico anello relativamente debole del disco è Red Shoes by The Drugstore, che avrebbe figurato meglio in altri dischi di zio Tom), ma posso dire che Blue Valentines e Kentucky Avenue restano fra i pezzi più strazianti e commoventi mai incisi, e dopo tutti questi anni ancora non riesco a non farmi venire un groppo in gola ascoltandoli.

Oggi le cose sono molto diverse da quel 2004: la 15enne che ero ha lasciato il posto ad una donna di 32 anni, più consapevole e disincantata, ma con le stesse paure e le stesse fragilità di quella ragazzina che talvolta, guardando indietro, ancora ritrovo.
Mio fratello continua a rosicare per quell’umiliante sconfitta, ma quello fu il nostro primo e unico incontro: una rivincita non l’ha mai voluta. Oggi è sposato e ha una figlia, ha messo su un bel po’ di kg e dubito calcherà ancora un tatami.
Stefania se ne è andata qualche anno fa per un brutto male; a tutti i suoi ex alunni ha lasciato una lezione importante: non farsi ingannare da ciò che emerge in superficie, così come lei ci vedeva per le persone che eravamo e non per i voti che portavamo a casa. Per questo insegnamento, il suo lascito più importante, non le sarò mai abbastanza grata.
La mia copia di Blue Valentine è sempre la stessa.

A Stefania, con immensa gratitudine e l'affetto di sempre.

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