Un profano, un estraneo. Qualcuno che si avvicina ad un universo che non è il suo, cercando di capirlo, comprenderlo e assimilarlo. Compito arduo forse, ma la ricompensa è grande: avere qualcosa di nuovo da amare. Personalmente mi sono sentito così nei riguardi di Tom Waits quando mi avvicinai alla sua musica per la prima volta, essendo i miei ascolti abitudinari molto distanti da quello che il ribelle americano per eccellenza propone ormai da tantissimi anni. Un personaggio discusso, Thomas Alan Waits. Un personaggio che ha fatto della sua vita e della sua musica un'incessante lotta alle illusioni della sua patria, alla solitudine nascosta della sue ipocrita e soffocante realtà. Nato in California nel 1949, è, tra i musicisti del nostro tempo, il genio anticonformista per eccellenza, rappresenta chi si è distaccato da tutto quello che la società che lo circondava poteva offrirgli. Quasi un gioco di parole il suo nome, per uno che in vita non ha mai aspettato nessuno.

Siamo nel 1985: quattordicesimo album nella sua intensissima carriera, "Rain Dogs", pur non essendo il suo miglior album, a mio modesto parere è uno di quelli più rappresentativi del suo genio, perchè riesce a far intravedere rasoterra il suo cuore, quello che è il suo animo tormentato sotto l'apparente serenità emotiva del Blues, sotto le atmosfere cupe della Title-Track, sotto la sottile ironia di "Singapore" o "Cemetery Polka". Semplicemente impossibile non strappare una piccola lacrima ascoltando la sua voce, una sigaretta lunga anni, la voce di tutti i barboni del mondo, la voce di quei cani che, sorpresi dal temporale, non sanno più come tornare a casa... Rain Dogs, appunto. Poco importa se l'emozione che proverete sarà nell'ascoltare il Rock leggermente jezzato di "Big Black Mariah", dove a far da spalla all'ugola di Waits è Keith Richards alla chitarra, o nelle note lente e commoventi della meravigliosa "Time", nella rilassata cadenzatezza di "Gun Street Girl" o ancora in un pezzo da ovazione quale è "Clap Hands".

L'importante sarà emozionarsi e farlo con la consapevolezza di ascoltare un artista immenso, che in un'opera come questa riesce a mescolare tra loro la canzone d'autore, il Blues più classico, il Rock e il Gospel per chinarli ai suoi voleri, alla propaganda del suo poetico verbo. Vorrei continuare a spendere parole su questo lavoro ma credo che sia inutile data la mia riconosciuta non idoneità a descriverlo nel particolare. E' un disco su cui sono state versate fiumi di parole e non mi sento certo in dovere di aggiungere le mie. Per questo non ho voluto nemmeno parlare dei testi, pure poesie da strada; vi sembrerà stupido, ma riportarne qui dei passi di qualcuno di essi sarebbe come fare un torto a tutti gli altri, per questo mi limito a consigliare caldamente la loro lettura. Da ascoltare, assimilare, capire e amare: e ve lo dice un metallaro.

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