Facile o difficile, al giorno d’oggi, recensire un nuovo disco di Tom Waits? I più disattenti direbbero facile. Stile uniforme, ormai, musica ovattata nascosta dietro la primazia di un paio di strumenti, un po’ di elettricità a stemperare l’ermetismo e rendere più dolce l’ascolto del novizio. A compendiare l’insieme, una voce ormai vicina al punto di non ritorno della sgraziatezza, e, come se fumo e alcol non abbiano già lavorato abbastanza sulle corde vocali del Nostro, in più punti resa innaturale dalla campionatura.
Chi conosce il genio di Tom e ne segue l’evoluzione da BONE MACHINE, invece, non può farsi ingannare. Solo apparentemente arduo metabolizzare, infatti, le altrettanto apparentemente incomprensibili parole vomitate dal gutturale di Waits. Che resta comunque un incorreggibile istrione. O forse davvero il Renfield che Coppola gli fece interpretare nel suo DRACULA deve avergli dato un po’ alla testa, mai completamente a posto.
Come stiano davvero le cose lo possono dire i suoi amici più stretti, o tutt’al più il suo psichiatra. REAL GONE rappresenta, però, l’ennesima riprova che Waits, quando ne ha voglia, sa fare musica. Sa quando, dove e come, nel confusionario tappeto delle sue ultime composizioni, inserire i diademi.
Quando meno te lo aspetti, piazza la zampata del fenomeno. E anche quando, come in questo suo ultimo lavoro, concede pochissimo al commerciale-melodico, trova il modo di sorprendere perfino lo scettico pretenzioso. Con SINS OF MY FATHER, traccia numero 3. Capolavoro. Ascoltatela. Riascoltatela. Una volta. Due. Tre. Poi, premuto il pulsante di STOP, affacciatevi alla finestra, controllate che di sotto non ci sia nessuno, caricatevi sulle spalle lo stereo e buttatelo giù. E smettete di acquistare dischi. Tutto quello che l’arte della nota, dai tempi dei monaci del Medio Evo, ha partorito e sviluppato, si trova in quella traccia. Se siete musicisti di professione, cambiate mestiere. Se siete invece dei semplici ascoltatori, cambiate hobby.
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