È tornato!
È tornato a raccontarci le sue storie sbilenche e stralunate, che parlano, come lui stesso ha detto, di “mamma, liquori, treni e morte, politica, topi, guerra, impiccagioni, balli, pirati, fattorie, peccati.” È tornato con le sue e le nostre paure tradotte in musica. È tornato ed è cambiato, anche se ha lo stesso spirito. È tornato ed ha portato con sé alcuni vecchi e nuovi amici a farci compagnia. È tornato, ma non era mai andato via, perché la sua musica è sempre stata con noi ogni giorno di questa fottutissima vita.
Quanto tempo è passato dall’ultima volta? Sei anni? Già sono passati sei anni da “Mule Variations” e in questo lasso di tempo Tom Waits ha pubblicato in un sol colpo “soltanto” due album, che teneva in qualche cassetto da anni: “Alice” e “Blood e Money”. Insomma, sono passati sì sei anni ed è stata una dolce attesa, ma pur sempre densa di curiosità per questo “Real Gone”. Le voci, poi, aumentavano l’impazienza. Si sapeva da qualche tempo che Waits avrebbe lavorato, oltre che con il fedelissimo Marc Ribot, anche con Brian Mantia e Les Claypool dei Primus; inoltre, era certa la decisiva e costante presenza della moglie Kathleen Brennan, cui doveva aggiungersi quella del figlio X Casey Waits.
Finita l’attesa ecco la prova del fuoco:l’ascolto. Poche note sono state sufficienti per convincermi che valeva la pena aspettare così tanto, perché Real Gone è un capolavoro. Spiegare brevemente il perché non è però cosa facile, sono, infatti, innumerevoli gli spunti su cui ci si potrebbe soffermare. Prima di tutto spicca l’assenza del pianoforte, che Waits ha deciso di tralasciare per ricercare nuove strade. Questo fatto non sorprende più di tanto, dato che nella sua lunga carriera (25 dischi dal 1973) Waits ha cambiato pelle diverse volte. Il passaggio alla Anti sei anni fa, poteva rappresentare un ulteriore gradino nello stadio evolutivo dell’arte di Tom, ma, per quanto bello, “Mule Variations” non era un disco inconsueto e innovativo. Ma l’attesa paga come dicevo poc’anzi, perché “Real Gone” è un nuovo inizio per il vate di Pomona. Fin dal principio (“Top of the hill”) ci si rende conto del cambiamento.
La sua voce è sempre ruvida e graffiante, ma il ritmo “funk cubista” è devastante, scatenante, pulsa nelle vene. Si comprende subito che vuole esaltare la forza ritmica della sua voce. Quindi, ascoltando, si ha come l’impressione di fare un viaggio nella caldaia di una locomotiva in corsa, di passeggiare stancamente in una notte senza luna, nera come la pece lungo strade luride e deserte, di nuotare in un oceano di veleno, di stare in un corridoio lunghissimo, stretto, pieno di curve e nicchie, dalle quali ogni tanto spunta all’improvviso il suono di un carillon, un banjo o un rumore, come una fucilata, che diventa ritmo, che ti entra nel sangue, non abbandonandoti un istante. “Don’t go into the barn”, ad esempio, è un’inquieta danza vudù, così trascinante che non puoi pensare di non prendere parte alla cerimonia. Ma non mancano ballate venate di quella sporca e amara malinconia che solo lui sa regalare, “How’s it gonna end” ad esempio e una piccola sorpresa come la ghost track "Chicka Boom". La chitarra di Marc Ribot, poi, mai come in questo caso sembra esistere solo per la voce di Waits.
So già che lo cullerò per anni. So che lo ascolterò fino a sentirmi male, fino all’esasperazione. Ne succhierò ogni nota, ogni minimo frammento e particolare, lacerandomi, distruggendomi come se stessi assaporando lentamente un dolce veleno. Perché la bellezza va vissuta fino allo spasmo.
Sì, è tornato!
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