A fucking grooves man.

Quando, nell'anno del signore 1978, un gruppo di punk sguaiati e lerci randellava canzoni di 3 note (perchè due erano poche - è vero - ma quattro erano davvero troppe) the fucking grooves man pubblicava "Blue Valentine", io compivo 2 anni e John Christy scopriva Caronte, satellite di Plutone. Nessuno se ne accorse allora (e sinceramente neanche io, preso a soffiare sulle mie candeline) ma quell'anno me lo sarei ricordato per bene.
Nell'anno del signore 1984, contenuto nella copertina più bella storia della musica (3 agenzie teatrali la useranno a scopi pubblicitari) usciva "Rain dogs", io compivo 8 anni e la sonda russa Vega 1 partiva per Venere. Nessuno osò prevederlo (e nemmeno io, preso nel mio vestito da comunione), ma vent'anni dopo quel sorriso disumano suonerà la sveglia delle mie mattine, ficcato al muro di fronte il letto.
E correva infine l'anno del signore 1987, quando the fucking grooves man cantava "Hang on St. Christopher", io avevo smesso d'occuparmi d'astrologia e - ancora lontano dall'idea di occuparmi amaramente di donne - compravo il mio primo mangiacassette.
Tra questi tre pilastri, un diluvio di grazia a bagnare il mondo, attraverso un numero indefinito di capolavori ("Swordfishtrombones" è del 1983, "Mule Variations" del '99, "Bone machine" del '92), mezzi passi falsi ("The black rider" è del '93), opere teatrali (il debutto di Frank's Wild Years allo Steppenwolf Theatre di Chicago è dell'86) e comparse al cinema ("Rumble's fish" di Coppola è dell'83).
The fucking grooves man è stato il cantore dei disperati, il pagliaccio delle strade affollate, il poeta teatrale, la marionetta imbottita d'alcool, il fumatore incallito e volgare, il genio morente e sempre risorto.
"Real gone" è - dopo "Mule Variations" - il secondo album di cui ne succhio il midollo senza differita. E lo sbrano, nella foga tipica degli amori di cui si teme prossima la fine. The fucking grooves manè tornato a fomentarmi con le sue miserie, coi suoi dolori e la sua fame. E' tornato a picchiare con le vecchie dita su qualsiasi cosa ululando inni di redenzione ("Sins of the father"); tornato a suonare col demonio, in blues furiosi alla John Spencer ("Shake it"); è tornato a tintinnare la sua chitarra, a battere sedie, tavoli, vetri rotti vomitando le sue grida roche (Il ripetitivo "Uh ah ah! Uh ah ah!" di "Dont' go into the barn").
Tornano i doppi bassi martellanti e sinuosi ("How's it gonna end"), torna lo spumeggiante e sensuale funk ("Metropolitan glide") e le solite, laceranti, vecchie storie d'amore e morte ("Era solo una semplice ragazza che credeva di sopportare la fine più profonda, ma ora e' davvero morta", canta in "Dead and lovely"; o ancora il lamento serrato e cadente di "Green grass"). The fucking grooves man torna - soprattutto - a recitare, sputando sulle elementari regole del cantato (lo spoken word di "Circus"), torna a padroneggiare col folk e con la dannata tradizione musicale delle viscere più profonde dell'America ("Trampled Rose").
Più di tutto, the fucking grooves man torna col suo blues: blues oscuro e ripetitivo ("Baby gonna leave me"), oppure lento e dolente ("Make it rain"). Più di tutto, il nuovo album del fottuto uomo dai solchi è "Day after tomorrow": è la violenta accusa di un artista immenso alla volgare guerra irachena, ai volgari signori del potere e del petrolio, vista con dagli occhi impotenti di un soldato in trincea, ed è la canzone che chiude il sipario a teatro. Buona visione a tutti.

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