Quando comincia sembra quasi di sentire "Mit gas", anche nel titolo: una "War song" degna della "Birdsong" che apriva quel disco quattro anni fa; si parte con suoni atmosferici, paesaggi sonici, verso l'imbrunire, con pioggia in sottofondo , anche se la sensazione principale che dà questo disco è un caldo soffocante, sole torrido in un deserto di sterpi, visione consigiata dallo splendido artwork interno del cd, se possibile migliore di tutti i precedenti.

In realtà le cose stanno in maniera molto diversa da quattro anni fa, Rutmanis non è più con loro, messo da parte dai melvins prima e dai tomahawk dopo, potrebbe fondare con Oliveri un'associazione per i bassisti emarginati; dovrebbe sembrare un disco di Denison allora, visto che l'ascia di guerra è una sua creatura, ma non è così, questo lavoro trasuda sperimentazione e atmosfericità come Patton sa fare solo quando c'è la gente giusta che gli suggerisce visioni splendide, quindi questo è il disco frutto di una creazione unica tra i due con uno Stanier mai stato così ruvido e tribale, lui che ci aveva abituato alla perfezione degli incastri ritmici dei Battles, che hanno giocato confrontandosi con qualcosa di quantomeno originale: la musica dei nativi indiani d'america di fine '800.

Il risultato è un viaggio lunghissimo per i deserti del Texas o giù di lì, tra fuochi, totem e riti. Ogni pezzo è un riarrangiamento di vecchissime canzoni della tradizione degli indigeni d'America e i risultati sono cose meraviglìosamente diverse tra loro. "Mescal Rite1" è una splendida danza tribale, "Song of victory" è una discesa libera tecnicissima riempita di cori e urla, "Cradle song" è un'incedere lento e funereo con crescendo mozzafiato tra canyon e burroni. Si va da semplici paesaggi sonori intrisi in egual modo dall'antichità delle percussioni e dalla modernità di samples meravigliosi a episodi sperimentali dal sapore chiaramente pattoniano: "Sun dance" potrebbe stare benissimo su The director's cut e nessuno si sarebbe stupito, ci si sarebbe solo chiesti in che film stava quel coro mohicano o siouxsie. C'è tutto, anche l'incedere canzonatorio e sereno di "Antelope ceremony": decine di pellerossa che bevono in cerchio mangiandosi un'antilope per poi ballare penzolandosi intorno ad un fuoco, persino una chitarra meravigliosamente sola che arpeggia la "Long, long weary day" che chiude le danze, c'è tutto, con quel filo riconduttore visibilissimo che riesce ad unire tutti questi episodi così distanti sotto l'egida di facce arrostite al sole e fiere, con trecce e saggezza.

Chi si aspettava un disco noioso e inutilmente sperimentale, giusto buono per circondare ancora più le rispettive aure di misticismo e intellettulismo esasperato e snob, s'è sbagliato grandiosamente, "Anonymous" non si può paragonare ai due dischi precedenti, è qualcosa di completamente diverso e spiazzante. Probabilmente non ce ne saranno concerti, ognuno con i propri cartellini da timbrare, chi con gli U.S.S.A., chi con i Battles, chi col resto del mondo, anche col tuo condominio, ma questo disco è fantastico. Se prima i Tomahawk si potevano considerare tra i gruppi più musicali e canonici di Patton, ora non è più così, ma è tutto un piacere.

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