Spesso gli artisti più illuminati sono anche spiriti fragili, anime che sanguinano e si lasciano travolgere da una fiamma che arde troppo velocemente. A volte ne vengono amplificate le gesta, le pose, o gli eccessi, non di rado anche oltre gli effettivi meriti.

Altre volte invece il caso decide di accantonarli, ed essi vengono lasciati a decantare in una sorta di limbo mediatico, fino a quando le loro opere non ritornano a galla nella propria prepotente ed autentica bellezza. Tommy Bolin rientra certamente in quest’ultima categoria. Molti di voi lo ricorderanno solo come “il chitarrista che sostituì Blackmore nei Deep Purple” nel controverso (ed oggi rivalutato) “Come Taste the Band”. Forse alcuni nostalgici dei seventies lo conoscono anche per aver contribuito al successo di quel capolavoro fusion che è “Spectrum” di Billy Cobham. Ma in realtà Tommy, nella sua pur breve carriera, è stato questo e molto altro. Era un talento istintivo ed un artista a tutto tondo, che riusciva a conciliare le proprie invidiabili capacità tecniche con una straripante inventiva, sia a livello compositivo che strumentale. La sua chitarra conosceva il linguaggio dell’anima, alla continua ricerca delle good vibrations, di quella musica custodita nel profondo. Uno stile frizzante e fantasioso, il suo, incentrato su di un suono penetrante eppure mai invadente. La semplice incisività del fraseggio chitarristico si sposava ad una libertà creativa priva di imbrigliature. Ma Tommy era innanzitutto un musicista molto avanti rispetto al proprio tempo, probabilmente ancor più eclettico del “compagno d’armi” Jeff Beck, con il quale tra l’altro condividerà il palco nella sua ultima ed infuocata jam. A suo agio nel blues come nel funk, profondamente innamorato del jazz, senza disdegnare sporadiche svisate in altri generi come il soul o addirittura il reggae. La musica per lui era un immenso e magico calderone, nel quale come uno stregone si dilettava a dar sfogo alle proprie fantasie, condite dai personali e pirotecnici giochi di prestigio con lo slide e l’Echoplex.

A parer della gran parte degli estimatori di Bolin, il periodo di maggior splendore artistico del nostro si è manifestato a cavallo tra il ’72 e il ’74. E quindi il disco che desidero porre alla vostra attenzione, pur non essendo mai stato pubblicato prima del ’99, ne rappresenta la genesi. Come il titolo preannuncia, l’energia è il catalizzatore della musica proposta, che il vocalist Jeff Cook definirà “jazz metal fusion blues”. Al di là delle curiose definizioni, quello che balza immediatamente alle orecchie è l’assoluto affiatamento tra i membri del gruppo ed una naturale predisposizione all’improvvisazione. Alcuni dei temi presenti in queste registrazioni verranno in seguito riproposti nei successivi progetti di Tommy, come il rock blues visionario di “Red Skies”, che finirà nel repertorio della James Gang, o la romantica ballata “Dreamer”, che verrà pubblicata nel debutto solista. Ma forse i veri punti di forza di questo lavoro risultano essere proprio i brani inediti, su tutti la psichedelica e malinconica “Limits” e il trascinante heavy rock di “Heartlight”. Saranno proprio le esibizioni con gli Energy a catturare l’attenzione degli addetti ai lavori, in particolare del sopraccitato Cobham, e a favorire l’ascesa del chitarrista fino al tragico epilogo.

Nel dicembre del 1976, a soli 25 anni, Tommy viene stroncato da un micidiale cocktail di droghe ed alcolici. Soffocato dal proprio vomito. La classica fine della rockstar. Preferisco ricordarlo nel suo abito in lamè d’argento, un sorriso appena abbozzato e l’amata Stratocaster a tracolla. Non per l’ingenuità o stupidità (fate voi) della sua morte, bensì per ciò che di prezioso ci ha lasciato: la sua musica.

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