L'onda lunga partita con "Revolver" aveva prodotto un subbuglio impensabile sotto diverse prospettive, e più a ovest c'era un gruppo di pazzoidi che usava un'anfora elettrificata e svolazzava gorgogliando a bordo di impensabili ascensori. Cercavano un nome per definire la loro musica, e venne fuori quell'aggettivo, "psichedelico", che avrebbe cambiato molte cose in futuro.
Una anche nell'immediato, per la verità: cominciavano a fiorire, di qua e di là dell'oceano, la miriade di associazioni sonore che conosciamo. Senza dilungarmi sulla stranota storia dell'estate '67 (peraltro importantissima) e tutto il resto, sarà utile ricordare che la "moda" inglese di quegli anni, è indubbio, portava molti gruppi a misurarsi con la psichedelia. Gruppi partiti come jazz, o magari non ben definiti (Soft Machine, Pink Floyd), gruppi blues (Pretty Things, Fleetwood Mac), gruppi prettamente beat (Who). E sicuramente ne dimentico tantissimi altri. Comunque, proprio in quest'ultima categoria si possono inserire gli Shondells, guidati da Tommy James. Partiti come emuli di Beatles e Kinks, o - per restare su lidi più accessibili - come simpatici colleghi dei Monkees, battono a lungo la strada - allora pressoché vergine - del pop/beat da classifica. Ancora nel 1967 pubblicano ben tre album, "I Think We're Alone Now", "Gettin' Together" e "Something Special", saldamente ancorati alle classifiche. Poi, nel 1968, "Mony Mony" scuote lievemente il gruppo, fino ad arrivare a "Crimson and Clover".
Che sia stato per effettiva crescita artistica o per sfruttare il momento, non è dato sapere. Fatto sta che nell'anno in cui esce "S.F. Sorrow" dei Pretty Things, proclamato in fretta come album dell'anno, si fa timidamente strada anche "Crimson and Clover". Trainato facilmente dal singolo di pronta presa che dà il titolo all'album, il viaggio si dipana attraverso una serie di ballate dai toni rilassati, che risentono qua e là di influenze blues annacquate in un festoso bagno pop - psichedelico. Le rare svisate di chitarre acide richiamano Grateful Dead e Quicksilver Messenger Service, anche se (ovviamente) non si raggiungono quei lidi né quei livelli. Ne viene fuori la delicatezza pastorale di "Kathleen Mc Arthur", la timida aggressività di "I am a Tangerine" e "I'm Alive" e il facile corale "Do Something to Me". Anche se senza dubbio perla del disco - e forse una delle più belle dell'intero movimento inglese - resta "Crimson and Clover". Parte come ballata, docilmente accompagnata dal basso di Mick Vale e dal canto sognante di James, per poi passare a parti strumentali ora aggressive, ora tenui, ora più veloci, ed andare a dissolversi in morbide percussioni, continuando a solleticare l'ascoltatore. Da brividi poi il finale, quel «crimson and clover, over and over» ripetuto ad libitum, con il coro filtrato sempre più veloce e incerto.
Ingenue sperimentazioni psichedeliche? Senz'altro, anche se in alcuni momenti del disco i cinque dimostrarono stoffa. Indubbiamente il suono esce oggi irrimediabilmente datato, se non in alcune eccezioni; ma testimonia a fondo di un periodo - la seconda metà dei '60 in Inghilterra - di importanza capitale per la storia della musica. Che si riflette ancora oggi.
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