Siamo tutti orfani di Sam Peckinpah, ma ad un grande attore come Tommy Lee Jones deve davvero mancare molto. Girare un film come "The Three Burials of Melquiades Estrada" nel 2005 significa molte cose, il ritorno a quel western contemporaneo, all'affermazione della giustizia non delle istituzioni ma quella "morale", ad una sorta di percorso di crescita interiore fino alla presa di coscienza che ci avevano fatto amare un film come "Voglio la testa di Garcia". Fortunatamente a Tommy Lee non toccherà la stessa sorte di Peckinpah, che all'epoca veniva bollato dalla critica bacchettona come violento, reazionario, ambiguo.

A spasso nel confine tra Texas e Messico non è più una testa mozzata avvolta in un lurido panno preso d'assalto dalle mosche attirate dal fetore, stavolta è un corpo intero, quello del mite clandestino messicano Melquiades Estrada, ammazzato come un cane dal giovane agente della pattuglia di frontiera. Mike Norton. Memore della promessa fattagli, sarà il suo datore di lavoro, il vecchio ranchero Pete Perkins a dissotterrare il corpo in putrefazione e condurlo fino al paese natio per un'ulteriore sepoltura, costringendo l'assassino a seguirlo in una dolorosa via crucis che porterà alla redenzione.

La sceneggiatura di Guillermo Arriaga con i suoi famosi flashback (gia autore di quelle ottime di "Amores perros", "21 grammi" e "Babel" di Inarritu) e la splendida fotografia di Chris Menges (Mission) danno forza alla sorprendente regia di Tommy Lee Jones. E' asciutta, mai ridondante, tiene sotto controllo gli attori come per prolungare gli effetti delle espressioni dei loro volti anche più del necessario, abbraccia i campi lunghi come per tenere sotto controllo anche la natura stessa senza mai imprigionarla.

Mentre in "Voglio la testa di Garcia" il punto cruciale era la presa di coscienza del miserabile pianista di locali malfamati Bennie, qui si tratta di un bastardo giovane poliziotto di frontiera che picchia i clandestini, si scopa in due minuti la giovane moglie annoiata e si masturba sulla copia di Hustler negli ampi spazi del deserto da controllare. Sarà il vecchio Pete a mortificarlo, torturandolo fisicamente e moralmente durante il viaggio fino al meraviglioso finale che riscatta stavolta la pessimistica visone di Peckinpah.

E in questa spietata storia spuntano episodi che sciolgono le emozioni che credevamo di mettere a riposo durante la visione di questo splendido film. Ad esempio la scena del decrepito cieco (interpretato da Lewon Helm, vecchio batterista del leggendario gruppo The Band) che ospita i due nella sua baracca e alla loro partenza chiede il favore di sparargli perché stanco di vivere. E la scena di Pete ubriaco nel locale messicano (dove tra le tante lucine ti aspetti di vedere spuntare la faccia di Warren Oates R.I.P.) che telefona alla sua amante chiedendola di raggiungerlo ricevendone un rifiuto, la sua delusione e amarezza è un libro aperto sul volto di quel grande attore che è Tommy Lee Jones.

Altra grande interpretazione è quella di Barry Pepper ("Salvate il soldato Ryan", "La 25esima ora") con la sua espressione da piccolo bastardo tanto simile a quella più famosa di Sean Penn e inoltre il cammeo del cantante country Dwight Yoakam nel ruolo dell'odioso sceriffo con problemi di erezione.

Tommy Lee Jones fa tesoro della lezione del passato prossimo (un altro rimando è "Stella Solitaria" dell'indipendente John Sayles, anch'esso incentrato su una storia di frontiera in un western contemporaneo) e ci lascia un film che è un nuovo punto di riferimento per quelli che verranno. Aspetto infatti con un misto di impazienza e sospetto la riduzione che i fratelli Coen hanno fatto del romanzo "Non è un paese per vecchi" del grande scrittore di frontiera Cormac Mc Carthy.

Spero per loro e per noi, ma ne dubito, che possano fare ancora meglio di "Le tre sepolture".

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