Tony Esposito forse ve lo ricordate per quell’aspetto da asburgico napoletano e per Kalimba de luna. Qualcuno sa che è stato ed è un percussionista di indicibile perizia.  Io mi ricordo di quando si faceva chiamare Toni, con la “i”. Di quando aveva preso una strada che puntava alla qualità senza occhi per la commercialità. Di quando indottrinava i mandolini al culto più vanesio del prog-jazz-rock. Ricordo che dopo solo tre anni rispetto a questo (tanto per fare un esempio a me molto caro), fu ospite dello stesso palco insieme ai Perigeo: Montreux era un punto di arrivo, e dopo soli quattro album Toni – ribadisco, con la “i” – era già arrivato.

Non voglio disprezzare i lavori successivi, quelli degli anni ’80. Ma poco mi interessano rispetto alla sicumera con cui dimostrava di assorbire i grandi classici del jazz elettrico, del jazz rock e  del latin jazz, ma anche  la musica tribale, le influenze afro, mediterranee, sudamericane. Una spugna di musica capace di rielaborare tutto secondo il proprio orecchio.

Questo album del 1978 (il quarto, appunto) per me rappresenta uno dei vertici della produzione napoletana “defilata” e molto discostata rispetto alla grande musica tradizionale partenopea. Lo colloco per importanza sullo stesso livello dell’esordio dei Napoli Centrale da un lato – quello più sperimentale – e di "Bella ‘mbriana", disco di Pino Daniele del 1982, sul versante più passionale e diretto.

La musica di Tony Esposito vive di se stessa. Non ci sono parole ad accompagnare gli strumenti. Si tratta di un continuo nutrirsi di aspirazioni, intuizioni, conoscenze, passaggi di puro genio e un po’ di mestiere. Un artista di grande fiuto, quindi, e dall’estro compositivo concreto e frizzante: i brani di questo album, infatti, partono dal Mediterraneo per attraversare i lontani mari della fantasia sudamericana e africana, pur mantenendo sempre costante un livello di brillantezza, direi, britannico per l’astrattezza di alcuni passaggi ed atmosfere totalmente devoti al prog rock più algido.

Questa è musica che ti mette a tuo agio: alle volte sembra di stare a casa a vedere un film spensierato, altre volte sembra quasi di assistere ad un varietà, altre ancora di stare davanti a un poliziesco anni ’70, infine di essere proprio nel cuore di quella Napoli creativa, con la pancia piena di ideali colori che fluiscono per le mille e mille vie che la percorrono.

La qualità compositiva dell’opera mette in risalto un grande gusto nella scelta degli arrangiamenti, che rendono elegantissimi e cangianti i brani: si va da atmosfere naif a momenti dove sembra di essere catapultati in una dimensione space, ci sono momenti in cui si concretizza l’idea del Brasile nero ed altri in cui si pensa ad una potenziale altra faccia de Le Orme.

Un panorama composito che si sviluppa lungo la dimensione orizzontale: quella dell’intersezione tra generi e dell’eclettismo per un susseguirsi di canzoni che hanno davvero poco di simile l’una rispetto all’altra, se non che quella mano sempre riconoscibile dell’autore.

Consigliato, per vivacità e qualità, a chi apprezza la musica nelle sue manifestazioni più sincere. In questo album, come nei precedenti tre, l’occasione di rivalutare un artista sorprendente.

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