Ristampato di recente sotto il marchio Sol Invictus, “Cupid & Death” è in realtà il secondo album solista di Tony Wakeford, ma non si può certo parlare di appropriazione indebita, dato che anche in questo nuovo lavoro del 1996, come del resto era successo nel precedente “La Croix” (del 1993), le sonorità in esso esplorate non sconfinano più di tanto da quelle che sono le coordinate stilistiche più peculiari della band madre.

Siamo adesso nel 1996, si diceva, e dai tempi di “La Croix” sono usciti altri album del Sole Invitto, fra cui quell'“In the Rain”, dato alle stampe l'anno precedente, che aveva delineato, con maggiore maturità che in passato, un sound meno aspro e belligerante, un sound che si fa maggiormente disteso e poetico, aperto ad arrangiamenti più raffinati. Del resto siamo anche alle porte di quella che diverrà l'esperienza in seno a L'Orchestre Noir, il progetto sinfonico di Wakeford (l'anno successivo vedrà la luce “Chantos”). Sulle dubbie qualità di Wakeford come compositore classico si è già parlato, e purtroppo anche i suoi primi progetti solisti (nati evidentemente per dare sfogo a quest'indole irreprensibile della sua visione artistica) risentono già della nefasta tendenza a dilungarsi in passaggi prolissi e puerilmente pomposi, tendenza che ammorberà i lavori usciti sotto la cappa dell'Orchestra Nera. Ma è anche vero che è proprio in questa sede che viene a rilucere più marcatamente, nella sua forma più vivida, il talento visionario di uno degli indiscussi padri fondatori del folk apocalittico.

“Cupid & Death”, un pelino meglio del suo predecessore, è quindi da annoverare all'interno del filone di opere che preferiscono mostrare il lato più riflessivo e pacato del suo artefice. Già la bellissima cover, che ritrae il Dio dell'Amore e la Morte prendersi di mira e tendere l'arco l'uno contro l'altra in un tragico slow-motion che cattura l'istante appena precedente al fatale scoccar delle frecce, ci anticipa il tema dell'opera: l'eterno scontro fra Eros e Thanatos, un tema senz'altro non originale, ma certo non scontato se sgorgato dalla penna di un artista come Wakeford. Una visione che trascende da una banale contrapposizione fra Bene e Male e che tende da un lato ad enfatizzare il potere, anche brutale, della pulsione dell'Amore, e dall'altro ad acuire gli effetti nefasti della sua inevitabile correlazione con le forze distruttive insite nella natura umana. Una dialettica annichilente, ma anche terribilmente vitale, su cui si fondano i sussulti e i rivolgimenti dell'Essere, individuale e collettivo: una cruenta battaglia, nobile ed al contempo barbara, qui descritta nel suo tremendo splendore, una narrazione che affonda infine gli artigli nell'universalità del Mito e della letteratura classica.

I cristallini rintocchi di un esile campanello che risuonano nel silenzio aprono le danze, per lasciare spazio alla voce tremula di Wakeford, presto doppiata dal fosco recitato di Karl Blake, in un crescendo (bellissimo il testo) in cui troveranno ampi margini di movimento il violoncello di Sara Bradshaw, la chitarra dello stesso Wakeford, il violino di Matt Howden, la tromba, il corno di Eric Roger, il pianoforte di David Sanson. I fan dei Sol Invictus, del resto, avranno notato che all'operazione presenziano molti dei più illustri compagni di viaggio di Wakeford, quella sorta di Orchestre Noir in fieri che negli anni a venire lo aiuteranno a definire con una perfezione crescente quello che sarà il sound della maturità della sua incarnazione artistica.

Come era successo in “La Croix”, buona parte dell'opera è occupata da composizioni strumentali, e infatti nei brani che seguiranno (“Le Lac Noir”, “Jardin du Luxembourg”, “La Nuit Est Arrivée” e “The Day of the Angel”) non sarà presente la voce di Wakeford, preferendo il Nostro lasciare ampi spazi ai fiati ed agli archi, liberi di evolversi su soffici tappeti ambient (da menzionare comunque i pacati beat elettronici e la suadente tromba jazz di Roger – quasi che viene in mente il Davis più solenne – della quarta traccia, a testimoniare, già all'epoca, le ampie vedute artistiche di Wakeford).

Musica quindi al servizio del pathos (i medesimi paesaggi incantati e fuori dal tempo che avevamo conosciuto in “La Croix”), ma non priva di reali sussulti, e mi riferisco ai due piccoli gioielli posti quasi in chiusura: “A Rose in Hell” è una folk ballad di pochi minuti (bello il ritornello impreziosito da un soave controcanto femminile) che nella sua semplicità ci riporta ai territori più confortevoli dei Sol Invictus, in cui il musicista inglese si trova evidentemente più a suo agio; l'altrettanto breve “Heaven and Hell” è un altro piccolo capolavoro, una visionaria ballata di pianoforte e violino dove Wakeford – tremenda quando intensa la sua performance vocale – prende tante stecche quanti sono i brividi che il brano fa scorrere lungo la schiena dell'ascoltatore.

Come da copione, è il reprise della title-track che appone il sigillo finale, riprendendone il tema e le liriche, ma sviluppandoli nella forma e nelle movenze di una tesa operetta apocalittica, squarciata da sferzate elettriche, cupi passaggi sinfonici, oscure percussioni e il canto strozzato di Wakeford che decanta la sempiterna lotta fra Amore e Morte, motore primo dell'umano divenire.

Poche novità quindi, ma tanta passione e qualche guizzo vincente per l'ennesimo tassello dell'impresa artistica compiuta da un uomo che nella musica ha saputo vincere i propri limiti mettendoci tutto se stesso, senza riserve, senza risparmiarsi nemmeno una volta.

Consigliato ovviamente ai die hard-fan di Tony Wakeford e dei suoi Sol Invictus.

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