"Non tutto di me morirà", cosa rimarrà allora del nostro passaggio su questo mondo?
Senz'altro Tony Wakeford una traccia la lascerà, se non altro per le sue milionate di uscite che infestano il mercato discografico da molti anni a questa parte. L'ultima in ordine di tempo è questo "Not All of Me will Die", prova solista targata 2009, opera dedicata alla poetessa polacca-ucraina Zuzanna Ginczanka (1917 - 1944), di origini ebraiche, uccisa dalla Gestapo a Cracovia dove si rifugiò sotto falso nome per fuggire alle persecuzioni.
Tony Wakeford invecchia, si è raffinato negli anni Tony Wakeford, è divenuto un signore colto e riservato, l'esuberanza degli esordi si è affievolita, ma il trauma della Fine rimane al centro della sua visione artistica. Wakeford continua a parlarci della Fine, un discorso lungo più di vent'anni, ininterrotto, multiforme, infinito probabilmente.
"Not All of Me will Die" è un lavoro commovente, concepito e costruito con la consueta passionalità e sincerità che contraddistinguono un maestro dell'apocalisse quale è Wakeford. Definire il suo ultimo album solista con l'etichetta di folk apocalittico è riduttivo quanto inevitabile, tanto certi umori e sensazioni facciano oramai parte del DNA dell'artista inglese, qui più che mai regista, prima ancora che protagonista, di un intima traversata nelle gelide ed umbratili lande dello spirito umano. Anche in questa circostanza Wakeford si contorna di abili strumentisti chiamati a dare colore e profondità alle sue desolanti e struggenti visioni, un'"orchestre noir" intenta a descrivere l'indescrivibile attraverso un'espansione dilatata, soffusa e tentacolare dei suoni. Il fulcro rimane la chitarra acustica di Wakeford, le sue pennellate di chitarra elettrica ovattata, i suoi avvolgenti sintetizzatori, il suo basso primigenio, le sue percussioni arcane. Da questo nucleo fioriscono il lacrimevole oboe di Mark Baigent, il violino della compagna Renée Rosen, il clarinetto di David Negrin e molti altri ancora.
Pubblicato dalla etichetta israeliana Eastern Front e registrato in seguito ad un soggiorno in Israele, "Not All of Me will Die" si ammanta di suggestioni mediorientali e sonorità echeggianti il folclore slavo ed est-europeo, non rinunciando tuttavia al gelo delle macchine che a partire dal precedente "Into the Woods" sono tornate con una certa incisività a macchiare l'arte trovatoriale dell'invitto Wakeford. In questo lavoro pressoché strumentale confluiscono armoniosamente l'evocativa e solenne monumentalità degli album solisti degli anni novanta ("The Croix" e "Cupid & Death"), l'avventura di compositore classico maturata in seno al progetto "L'Orchestre Noir" e certe soluzioni più sperimentali che troviamo disseminate in più di vent'anni di carriera: come se l'arte di Wakeford fosse una valanga impetuosa che nel corso degli anni ha saputo evolversi in modo incrementale, inglobando via via nuovi elementi e sistematizzandoli in uno schema organico e coerente.
"Not All of Me will Die" ci appare quindi come la summa di una carriera intera, della quale costituisce probabilmente l'impeto che più di tutti punta all'Assoluto: questa opera potrà essere tacciata di prolissità o di indulgenza eccessiva nei confronti di certi formalismi; le qualità di compositore di Wakeford non potranno apparire eccelse, le sue melodie elementari, il tutto potrà suonarci didascalico, fine a se stesso, meramemente descrittivo e qualcuno potrà a ragione dire: "Sì, tutto molto bello, ma poi che resta?". Resta la poetica invincibile, inossidabile del menestrello che con i suoi Sol Invictus ha scritto pagine fondamentali della storia del folk apocalittico, abile pittore di sentimenti remoti e sapori arcaici, narratore di imprese leggendarie e scenari puri ed incontaminati, qui più che mai vicini ad un gelido eden novembrino.
I colossali ventidue minuti della traccia d'apertura "Non Omnias Moriar" sono sublimi: un lungo affastellarsi di carezze ambientali, aperte dal cupo rintocco di tamburi e chiuso da fiumi di droni elettrici che si accavallano placidi in una desolante deriva di sentimenti. I versi della poesia della Ginczanka emergono fra le corde pizzicate della chitarra classica e i loop di una chitarra elettrica echeggiante in lontananza, fra un sinuoso lamento di oboe e il precipitare negli abissi di un clarinetto: sono la voce rotta dal pianto di Wakeford e asettici recitati femminili a decantarli, in uno dei momenti più alti della poetica wakefordiana, qui più che mai influenzata dall'ambient bucolico dell'amico muscista e pittore Tor Lundvall.
In "Fullness of August", altro brano cardine dell'opera, una voce maschile straordinariamente pulita tesse un canto di struggente ed astratta malinconia tanto che ci pare di sprofondare nelle note soffuse di un album di David Sylvian; nel finale torna l'elettricità, quasi a recuperare la componente più propriamente eroica dell'artista inglese. Nella porzione conclusiva dell'album, fra un balletto di archi e scie di droni pellegrinanti nel vuoto, trova maggiore compimento la visione industriale di Wakeford, mai arcigna e molesta, bensì elegante, desolante, arcaica (sembra un ossimoro!), abile nel descrivere lo strazio dell'assenza, la fioca luce che in lontananza indica una possibile, non certa, prosecuzione nel tempo del nostro cammino zoppicante.
In poco più di cinquanta minuti Wakeford traccia i contorni di quella che potremmo definire l'Immortalità, l'immortalità dell'arte in primis, l'impronta che, più in generale, lasciamo lungo il nostro viaggio su questo mondo....
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