Why can't we not be sober?”; è il 1994, la voce di Maynard James Keenan è hit. Tre anni prima il re grezzo di Paul D’Amour in “Sober” apriva il demo “Opium Den” e consegnava alle orecchie della Zoo/Volcano Entertainment i natali d’uno degli ultimi miti del rock.

“Opium Den” è il primo, non ufficiale ma già lampante prodotto dell’incontro tra quattro musicisti che agli albori degli anni novanta, a Los Angeles, si uniscono sotto l’inquietudine d’un nome che è tradimento delle amicizie e sottomissione alle regole (“tool” nel gergo militare), e che proprio attorno al vuoto che genera i mali, e il Male, costruiscono la rabbiosità e le pretese filosofiche delle loro session. Danny Carey, batterista con una certa esperienza alle spalle, e Paul D’Amour, bassista irrequieto ma potentissimo che lascerà la band agli albori di “Ænima" (1996, in piena consacrazione) costituiscono un tessuto ritmico di violenza primordiale eppur già ricco di accorgimenti, nella partitura (le progressioni dispari, ancora legate al grunge di stampo Soundgarden) e nello stile (gli accenti imprevedibili, lo slap insistito). E’ il preludio alla maniacale e matematica cura del sound che la band paleserà via via, ed è l’invito a nozze per le atmosfere lancinanti della chitarra di Adam Jones, altresì designer di effetti speciali (“Jurassic Park”) e perciò mente avvezza a “patinare” un prodotto. L’attitudine “visuale” della musica dei Tool, seppur embrionale in “Opium Den” e irrimediabilmente soffocata dalla mediocrità della registrazione, è poi tutta nelle liriche ipnotiche di Keenan, una delle voci più personali dell’intera storia del rock, di cui negli ottanta nessuno si era accorto nonostante una consistente gavetta.

 

Dei sei pezzi che compongono il bootleg in questione, quattro (“Jerk-Off”, “Cold And Ugly”, “Part Of Me” e “Hush”) andranno a costituire il leit-motiv dell’EP “Opiate” (1992), basato su di un’immediatezza espressionista che nasconde/riflette quel dolore ragionato e “cosmico” che sarà la tinta dei dischi a venire (percorso che sfocerà definitivamente quattordici anni dopo nella superproduzione “10.000 Days” e soprattutto nella sua iperbolica title-track).

Le rimanenti due tracce, “Sober” e “Crawl Away”, riappariranno in scaletta con “Undertow” (1993), sorprendente album d’esordio e futuro doppio disco di platino. E proprio confrontando le versioni ufficiali delle sei composizioni con i loro predecessori in “Opium Den”, ci si sorprende di come le differenze siano minime, perlopiù legate ai testi o alle minuziosità d’arrangiamento; a discapito della scarsa qualità sonora, erano già maturate la notevole misura compositiva (“Part Of Me”), la capacità d’una critica sferzante (“Hush”), l’attitudine all’orecchiabilità delle liriche (“Sober”) contrapposta, efficacemente, all’ambizione d’un moderno progressive-rock (“Crawl Away”). Nell’attesa che, con “Lateralus” (2001, terzo album in studio), tutto questo sublimasse oltre ogni aspettativa.

 



Carico i commenti...  con calma