Forse questa volta sarà difficile trovare le parole per tradurre emozioni e immagini dall’ascolto di un disco come questo. Si perché fra la dolce Tori ed ogni persona che ama la sua musica si crea un rapporto unico, diretto, intimo, come con una vecchia amica con cui ti senti perfettamente a tuo agio, con cui puoi condividere emozioni forti. Under the Pink è la sua seconda opera che nel 1994, lanciata dal singolo “Cornflake Girl”, le fece raggiungere l’olimpo della musica, consacrandola la “Dea del rock”.

L’ascolto di queste 12 piccole perle ci offrono, nei testi, una ragazza più matura rispetto a quella romantica e sognatrice di Little Earthquakes, che dopo essersi messa a nudo e mostrata “senza veli”, affronta il mondo con più serenità, quasi con ironia in alcune canzoni ("God" e "Icicle" in particolare) – sintomo probabilmente di un leggero distacco con cui guarda il mondo e la sua vita. Dal punto di vista musicale, che dire: abbiamo qui l’apice delle sue doti di songwriting. Una raccolta di canzoni splendide, che mescolano un sound a tratti quasi minimalista ad arrangiamenti pianistici e vocali di notevole complessità. Tutto quello che può scaturire dalla voce di un angelo, che raggiunge altezze inesplorate, e dal suo fedele Bosendorf, con cui intrattiene un rapporto quasi carnale; il resto, un pizzico di sezione ritmica e violini. Giusto l’essenziale. Poiché il resto lo fanno le sue mani fatate ed il suo gusto melodico, che hanno come risultato delle canzoni che sorprendono per ritmo, giochi di tempo ed armonie, ma anche per emozioni allo stato puro per l’ascoltatore, che non può che innamorarsi di nuovo, e sempre di più, ad ogni ascolto.

Il disco si apre con le ottime “Pretty Good Year” e “ God”, singolo di lancio negli USA, che si fermò al 12 posto in classifica. Sonorità ora acide ora melodiche, direi “celtiche” a tratti, una canzone poliedrica dal testo particolarmente interessante, in cui manifesta un confronto quasi fisico con Dio: “God, sometimes you just don't come through Do you need a woman to look after you” “Bells For Her” è forse la canzone più evocativa, come una vecchia filastrocca triste sussurrata su una manciata di note lontane. Segue “Past the Mission”, dal tempo bizzarro ma dal taglio molto melodico, in particolare nel ritornello in cui c’è un cameo di Trent Reznor nel coro (uno dei suoi migliori amici dell’epoca, e forse qualcosa di più...); a seguire la splendida “Baker Baker”, canzone su un amore finito con cui è impossibile non commuoversi, dall’altissimo impatto emotivo. Leggere influenze di cabaret ed elettronica rispettivamente in “The Wrong Band” e “The Waitress”, in cui Tori sfoggia tutta la potenza della sua voce nel ritornello, dimostrando di avere veramente sangue divino nelle sue vene. La ben nota “Cornflake Girl” (n#1 in the UK) è una canzone dal giro di piano geniale e dall’arrangiamento sopraffino, quasi una sintesi della sua lirica. Seguono le due splendide ballate “Icicle” e “Cloud On My Tongue”, la prima di queste al tempo stesso inquieta ed ironica... "And when my hand touches myself I can finally rest my head And when they say "take of his body" I think I'll take from mine instead"
Il disco si chiude con “Space Dog”, la canzone più rock (insieme a God) e l’enigmatica “Yes, Anastacia”, lunga ballata “epica” dedicata ad una principessa di Russia dei primi del '900, una criptica poesia sinfonica.

In conclusione, una Tori Amos all’apice della creatività, nella sua opera più personale e matura. E anche la più bella a mio avviso, poiché la Tori di “From the Choirgirl Hotel” (che rimane comunque un capolavoro assoluto), è obbiettivamente aiutata da una produzione di alto spessore. Dolce piccola Dea, aspettiamo il tuo vero ritorno con impazienza...

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