C’era una volta una cantante dai capelli rosso fuoco che nel mezzo del cammin di sua vita si ritrovò in una selva oscura che la retta via era smarrita. Così si potrebbe descrivere la storia di Tori Amos, a parere di chi scrive, la migliore cantautrice mai esistita (con Joni Mitchell – se fossero state uomini starebbero dove stanno Bob Dylan e Tom Waits, ma hanno avuto la sfiga di essere donne e quindi destinate a non ricevere gli onori che meriterebbero).

Tori Amos ha inanellato una serie di album che vanno dall’epico (i primi quattro) al bellissimo (i successivi quattro) tra il 1992 e il 2003. E se “The Beekeeper” del 2005 ci aveva mostrato una Tori in affanno, che cercava di sopperire alla qualità con la quantità, gli album fiume del 2007 e del 2009 (“American Doll Posse” e “Abnormally Attracted to Sin”) hanno caratterizzato, tra concept che si mantenevano insieme con lo sputo, poca ispirazione e una produzione raffazzonata, il punto più basso della carriera della Amos. Ma nel 2014, Tori ha deciso di tornare alle origini e, una volta abbandonate parrucche e alter ego, ha ricominciato ad attingere dalla sua vita privata. E quando Tori parla di cose che la riguardano da vicino, raramente fallisce.

L’album parte da dove era terminato "Scarlet’s Walk", “America” è un pezzo molto scarlettiano con un ritornello accattivante e una malinconia che accompagna le immagini dell’altra America, quella che lotta per la sopravvivenza e non sta costantemente sotto le luci dei riflettori. Il singolo “Trouble’s Lament” è un pezzo squilibrato in cui la Amos, ancora una volta, racconta storie inquietanti di ragazze e demoni. In questo album ci sono pezzi che attingono da un po’ tutte le ere della sterminata carriera della cantautrice cherokee e che ci raccontano che la vita di una donna nel star-system non è semplice, ma che se si vuole si può trovare il modo di sopravvivere alle difficoltà. Il tema dell’età che avanza è il punto centrale di “16 Shades of Blue” in cui si avverte tutto il malessere di una donna che teme di non essere presa più in considerazione solo perché non più giovane e avvenente. L’altro pezzo vincente dell’album è la title-track che ha tre cambi di ritmo in sette minuti e che termina in un pezzo piano e voce che sembra ricordare i fasti di “Under the Pink”. Peró è in "Oysters" che Tori rivela che forse ciò che ha fatto negli ultimi anni non era il meglio che poteva fare (tenete conto che per Tori le sue creazioni musicali sono le sue “girls”):

so can these shoes take me to
who I was before
I was stabbing my sticks into
a vulnerable earth
and I can almost out run you
and those stalking memories
did I somehow become you
without realizing
found a little patch of heaven now
so then I'm gonna turn oysters in the sand
'cause I'm working my way back
I'm working my way back to me again
not every girl is a pearl
with these ruby slippers
with these ruby slippers
so then I'm gonna turn oysters in the sand
in the sand
turn
turn
turn

E Tori Amos é davvero tornata a girare le ostriche nella sabbia per creare perle. Questo non è un album perfetto, la produzione è tutt’altro che immacolata e un pezzo come “Giant’s Rolling Pin” pur essendo carino e allegro stride con il resto dell’album. Ma questo disco ci restituisce una Tori Amos viva, che vibra e che ci ricorda il perché l’abbiamo amata così tanto. Sembra davvero l’inizio di una nuova era e noi siamo pronti ad accogliere le nuove ragazze che la cantautrice ci vorrà regalare.

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