Un responso massificato e un cambiamento radicale ad ogni livello sociale è una caratteristica imprescindibile per ogni rivoluzione per poter essere definita tale.
Quindi, a prescindere dal valore musicale delle correnti musical-ideologiche che si sono susseguite negli anni bisogna fare spesso un distinguo tra coefficiente di innovazione e reale portata "sociale" del fenomeno.
Doverosa premessa per introdurre il disco in questione, le cui innovazioni, sue e del lavoro precedente (il seminale "Millions now living will never die") non sono ancora state assorbite nella musica destinata al mercato di massa.
Il cosiddetto post-rock viene spesso imputato quale movimento di sperimentazione ritorta su se stessa, persa nel proprio autocompiacimento; costituì cioè, più che un'evoluzione del rock, una più probabile e semplice diramazione dello stesso.
Sappiamo che i lavori successivi dei Tortoise daranno parzialmente ragione a tali voci, con progressive cadute di tono fino all'inutile "All around you", forse segnale di "secca artistica".
E' però il caso di mettere da parte ogni digressione di sorta al cospetto di tale lavoro, uno stand alone rispetto a qualsivoglia movimento, la cui qualità e meticoloso studio del bello parlano da sè.
Trattasi pur sempre di post-rock strumentale con bagni sporadici con elettronica minimale e sprazzi (questa volta strutturali, però) di jazz dalle tinte soffuse e sognanti, ma mai come con questo disco ho avuto l'impressione che ogni particolare sia esclusivamente volto verso il tutto, riuscendo contemporaneamente ad essere netto e lordo.
Di conseguenza non abbiamo personalità dominanti che fanno pendere la bilancia verso una direzione facilmente definibile, ma l'indefinito così matematico ma al contempo così naturale disegna gli ineffabili contorni della musica che vale per se stessa, al di là di correnti musicali e sterili attitudini di genere.
Difficile racchiudere l'album in episodi, perchè il jazz-rock della titletrack, l'elettronica di "The equator" o il calore di una "I set my face to the hillside" stanno così bene lì, in quella perfetta successione, guai a toglierle.
Nessun passaggio pare forzato o più semplicemente "svogliato" e la distanza contemplatoria dell'ascoltatore è funzionale per cogliere ogni sfumatura, che spesso si rivela nei primissimi ascolti, ma che riesce a non annoiare a distanza di tempo; e non mi pare poco..
Se nel precedente lp il post-rock era il fine, qui diventa il mezzo raggiunto e consolidato, usato per fare musica e parlare in musica, di quella che accoglie a braccia aperta l'assenza di pregiudizi intorpidendo i sensi, quella che quando finisce ti fa premere nuovamente play.
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