Al momento è ancor questa l'ultima pubblicazione di materiale inedito da parte del super gruppo losangelino, comunque vispo e arzillo visto che è tuttora in giro per il mondo a far concerti (anche in Italia, lo scorso giugno) per un nobilissimo intento: raccogliere denaro per aiutare la famiglia del bassista Mike Porcaro, ridotto in fin di vita da una terribile malattia degenerativa. La tipica definizione, ad opera dei detrattori più distratti e faciloni, di "prezzolati session men di studio" riguardo i musicisti della band non quadra molto col fatto che questi qui, a sessant'anni, continuano puntualmente a salutare le famiglie, privarsi per un bel po' delle loro belle case californiane, ignorare i comodi studi discografici sotto casa e mettersi per mesi interi on the road a calcare palchi, prendere aerei, sballottarsi qua e là col bus e dormire in albergo.

"Falling In Between" è da annoverare come una fra le opere più consistenti e piacevoli della quindicina più o meno pubblicata dal 1978 ad oggi. Da molto tempo (diciamo da "Kingdom Of Desire", 1992) la musica dei Toto ha smesso di pagare fuorviante dazio alle leggi commerciali, ovvero alla cupidigia della multinazionale discografica. L'accessibilità delle tecniche digitali e la grande esperienza consente loro di fare ormai allegramente a meno di un contratto: i nostri si sono registrati, prodotti e pagati questo disco da soli, appoggiandosi poi alla napoletana Frontiers per la distribuzione internazionale. In questo modo viene perseguita al 100% la propria ispirazione, senza interferenze, consentendo al lavoro in questione di rappresentare fedelmente gusti, inclinazioni e divertimento del manipolo di brillanti musicisti coinvolti nel progetto.

Tale rappresentazione consiste, per chi non lo sapesse, in un raffinato ma anche energico frullato di hard rock, rhythm&blues, jazz&fusion, progressive pop e altro ancora. In questi undici brani si possono ascoltare e gustare arditi, ma armonici accostamenti di umori tra i più svariati: percussioni latine che viaggiano insieme a chitarroni metal, ritornelli anthemici e corali che sorgono pulitamente da estemporanee, elaborate strofe in tempo dispari, assoli fusion che si appoggiano a ritmiche di ispirazione africana, pianoforti EltonJohniani che vanno a ingentilire granitici riffoni chitarra/basso, sezioni di ottoni che spaccano in due situazioni rock e le fanno odorare di big band ecc. ecc.

Vivere ed operare a Los Angeles, ombelico musicale del mondo se ce n'è uno, consente di avere apertura mentale ed esperienza esecutiva gigantesche, se si è musicisti intelligenti e in gamba come loro. I Toto ci mettono, di rinforzo, molta amicizia, reciproco rispetto e sano piacere di stare insieme a godere dei rispettivi talenti. E' evidente infatti come queste canzoni appaiano frutto del lavoro di gruppo, del piacere sommo che procura il partire dall'idea singola portata da un singolo, ovvero nata estemporaneamente in sala prove mentre si cazzeggia in libertà, per poi approdare, contributo dopo contributo, alla struttura ed all'arrangiamento finali: quasi tutti i brani sono in effetti firmati collegialmente da tre, quattro, fino a cinque componenti della band.

I ruoli, dopo così tanti anni, sono ben definiti ma ancor più accettati: il panciuto pianista David Paich è il compositore principale e la voce sonora ed ironica, adatta alle strofe più solari; il riccioluto inglese Simon Philips, degno erede del compianto Jeff  Porcaro, è la macchina ritmica perfetta, fantasiosa particolarmente nell'uso dei tom; lo sfortunato Mike Porcaro, qui alle sue ultime performances, è il solito bassista affidabile ed equilibrato; il chitarrista Steve Lukather, il "capo" vista la meritoria, inesauribile energia nel tenere insieme il gruppo, è tante cose... canta le sue ballate malinconiche nonché qualche strofa qua e là nei pezzi più mossi, intanto che continua con voglia intatta a sperimentare i suoni, gli amplificatori, il ruolo della sua chitarra nella band (pochi assoli stavolta, o meglio piuttosto brevi, con un timbro sempre più asciutto e grosso, però non verso l'hard rock bensì in direzione fusion oppure, se c'è da far casino, verso lo smargiasso progressive metal); l'urlatore Bobby Kimball è il solito martello, spinge sugli acuti a voce piena spaccatimpani e non conosce cali di potenza... e pensare che era stato cacciato dal gruppo, qualcosa come trent'anni fa, perché si era fottuto la voce tra bevute e polveri varie!

Come non bastasse, aggiunge il suo contributo un vero stuolo di bella gente, fra cui alcuni ex-componenti del gruppo e altri aspiranti new-entry: Greg Phillinganes fa l'organista e il quarto (!) cantante; Steve Porcaro gonfia lo spettro sonoro con le sue amate fanfare di sintetizzatori, senza paura, malgrado viga ancora quel riflusso infinito che ha ricondotto le formazioni rock a fare affidamento ai soli pianoforti ed organi, quasi che tutto lo sviluppo di suoni sintetizzati degli anni settanta ed ottanta fosse monnezza; il figliol prodigo Joseph Williams (che qui riprende i contatti, ma negli attuali concerti è il cantante di ruolo) dà una bella mano nel singolo di buon successo "Bottom Of Your Soul"; il trombettista jazz Roy Hargrove appoggia intanto uno squisito assolo Davisiano sopra una scheggia di jam session, vero e proprio omaggio ai Weather Report, a titolo "The Reeferman" e messa a chiusura del disco; l'intera sezione fiati dei Chicago, arrangiata dal loro geniale trombonista James Pankow, cucina prelibatezze nella porzione strumentale fusion/funky di "Dying On My Feet" (mia preferita in assoluto del lotto); Ian Anderson dei Jethro Tull appiccica un assolo di flauto, invero un po' anacronistico, sull'hard rock Purpleiano "Hooked"... e via così, in una vera festa di bei suoni e grande profondità e tiro che rende quest'opera sfaccettata, trascinante, limpida e ammirevole.

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