C’è un’installazione di Alfredo Jaar che inconsciamente collego sempre all’ascolto dei Tragedy. Creata nel 1991 dall’emblematico titolo “Geography = War” si ispirò agli eventi avvenuti in Nigeria, a Koko, sul finire degli anni ’80 quando rifiuti tossici di matrice italiana arrivarono al porto della città africana. La noncuranza generale a riguardo dei materiali al loro interno portò alla vendita dei barili per 100 $ al mese. Etichette sbiadite e rovinate, assenza d’indicazioni su un qualsivoglia contenuto altamente pericoloso fece sì che questi contenitori vennero svuotati completamente dagli abitanti della zona, altri fatti esplodere o ancora versati inconsapevolmente nelle acque d’irrigazione, contaminando un’intera area. Disseminando morte in modo casuale e terrificante. Jaar prendendo spunto da tale evento combinò 55 barili pieni d’acqua con delle fotografie scattate alla popolazione di Koko che riflettendosi sulla superficie liquida, grazie a un gioco d’illuminazione per via della sala completamente oscurata, risaltavano in un gelido bianco e nero, trasfigurando l'acqua sottostante nel più viscoso petrolio. Un’azione volta a mettere alla luce una delle tante contraddizioni sociali a cui s'assiste quotidianamente nel nostro pianeta. Ecco, se siete giunti a questo punto vi chiederete se non sono completamente fuori tema e che forse dovevo dedicarmi alla recensione di un’opera d’arte contemporanea. Eppure i Tragedy c’entrano eccome, perché nella loro musica si sente questo. Un perenne senso d’emergenza e angoscia apocalittica, ma non pensando a un futuro utopico, semplicemente osservando le macerie della realtà circostante.

Loro non hanno bisogno di tante presentazioni. Originari di Memphis, nel profondo Southeast americano, capaci di partorire negli anni ’90 la creatura His Hero Is Gone, grazie alle figure di Todd e Paul Burdette, Yannick Lorrain fanno del crust, del mondo e dell'etica DIY la loro ragione di vita. Parlare di attitudine sembra quasi riduttivo. Tant’è che biograficamente si sa ben poco ed è la musica a parlare al loro posto. Più che parlare però è un grido quello dei Tragedy. Un urlo che si fa riconoscere fin da subito, nel 2000, con l’uscita self-titled “Tragedy” e che anni dopo riecheggerà ancora più forte con i masterpiece “Vengeance” e “Nerve Damage”, stabilendo le coordinate di un punk esasperato e nichilista di nuova generazione, riportando in alto quella bandiera alzata nei primi anni ’80 da perni fondamentali come Amebix e Antisect. I nostri affonderanno poi le radici nell’Oregon a Portland, tagliando da est a ovest lo stato americano, incorporando gente che mastica la loro visione, come il bassista Billy Davis passato nelle file dei From Ashes Rise, altro gruppo che ha contribuito alla renaissance crust in maniera decisa. Il lavoro in questione è “Darker Days Ahead”, l’ultimo in ordine cronologico. Uno sguardo disperato dei Tragedy su ciò che verrà, con una consapevolezza aggiunta, sempre più cupa e in cui la violenza materializzata in saette hardcore, tipica degli esordi, fatica ad emergere. L’incidere infatti è lento, malato e avvolgente come se si fosse prigionieri in una cella che va sempre più a restringersi.

Visioni pessimiste costruite attraverso riff maligni che si fondono con un graffiato rauco, senza alcuna velleità, pregno di una ruvidità che colpisce come un macigno. Si viene trascinati in un vortice di rallentamenti dai rimandi doom e sludge. Il dna crust è la costante allarmante che, riemergendo qua e là, propone scosse di risveglio dalle ritmiche marziali che marciano incessantemente, abbattendosi a mò di avvoltoi sulla carcassa della propria preda. Melodie che non rassicurano e non hanno minimamente il compito di allentare la tensione drammatica proposta dai Tragedy, semmai di rafforzarla e raffinarla. Una splendida alleata nel distribuire equamente moniti su disastri ecologici annunciati, collassi nervosi, scorci aridi, in cui il diffondersi delle tenebre e dell'ingiustizia nella società odierna non sembra inevitabile, semplicemente è già avvenuta. “Darker Days Ahead” è strutturato per non aver cedimenti, ma per provocarli. Un’inquietudine destabilizzante nella quale non si può non notare la maturazione artistica che ha portato i nostri a integrare nel loro sound caratteristico una ricercatezza compositiva che possa render gli assalti sì controllati, ma ancor più efficaci, bilanciando sapientemente quiete stridente, sinistri interludi e un muro sonoro senza compromessi, dove far esplodere un’incendiaria frustrazione e, perché no, rassegnazione nel constatare che le atmosfere create musicalmente si ripresentano ossessivamente nel vivere d’ogni giorno. Un lavoro “Darker Days Ahead” che rompeva sei anni di silenzio e ha avuto il merito di aver riportato sul palcoscenico dei Tragedy come non mai integralisti, ma non per questo rarefatti nelle loro distorsioni crust; mettendo così in luce una capacità mutevole di saper stratificare la loro anima desolata in progressioni sonore articolate. Finiti i trentasei minuti di durata del lavoro, l'unico pensiero immaginabile è che bisogna solo esser grati nell'esistenza di artisti come i Tragedy che all'alba del 2014 sono nella storia di un'intera scena musicale a pieno merito.

"There are no gravestones here. There are no cemeteries here. There are no headstones here to honour fallen ones. This site is desolate."

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