Sul fronte pop, questo 2008 doveva segnare il ritorno di almeno tre grandi band britanniche. Le prime due, Coldplay e Verve, hanno sfornato negli scorsi mesi degli album perfettamente nella media, che hanno visto il gruppo di Martin affidarsi ad un produttore - Brian Eno - capace di dare uno spessore barocco e sofisticato a delle composizioni sulla carta non sempre all'altezza, e quello di Ashcroft gettare sul mercato un prodotto di buona fattura ma ovviamente incapace di far riaffiorare del tutto i fasti del passato.

A un anno e mezzo da quel "The Boy With No Name" che li aveva visti tornare sulle scene europee dopo tre anni di silenzio (eccezion fatta per il best of), i Travis di Francis Healy si accodano ai due gruppi sopra citati e pubblicano il loro sesto album in studio. Per intenderci, uno in meno dei Radiohead. Dal loro esordio, nel 1996, la band ha mantenuto pressocchè immutato il suo sound semplice e immediato fondato su melodie a tratti orecchiabili e a tratti davvero ad effetto mantenendosi sempre su livelli più che buoni. Anche l'ultimo album non aveva fatto eccezione: la produzione di Eno e del solito Neil Godrich era servita più che altro a modernizzare una forma-canzone comunque derivativa e canonica ma pur sempre nobilitata dal melodismo innato di Healy e dalla sua splendida voce, come sempre catalizzatrice emozionale nei loro album.

I Travis hanno sempre fatto pop, nella forma forse meno diffusa oggi: le loro musiche non viaggiavano sui territori barocchi di Coldplay e Verve, non hanno mai accennato realmente a virare verso il britpop di Oasis e Blur quando questo era ancora in voga, e finora non erano mai nemmeno sfociati nell'indie-rock oggi tanto di moda, musica buona ma che spesso nasconde paradossalmente una forte tendenza commerciale. Ma già in primavera Healy aveva annunciato sul blog della band che le nuove canzoni avrebbero avuto un piglio più rock. I più informati parlavano di una sintesi tra "12 memories", il loro album più cupo e sottovalutato, e "The Good Feeling", lo scanzonato disco d'esordio. Ovvero una sorta di pop-rock con vene melodiche piuttosto cupe, figlio forse di quella "Selfish Jean" che era stato uno dei pezzi più acclamati di "The Boy With No Name".

E in effetti sentendo la prima traccia dell'album, "Chinese Blues", già a partire dall'incipit piano-chitarra ci si rende conto della palese virata verso sonorità più ruvide. La voce di Healy parte bene con una strofa accattivamente e un ritornello sostenuto dallo xilofono e da pesanti sovraincisioni, nobilitata nel finale; la sensazione è che il suono si sia fatto sì più ricco e mediato, ma non certo a discapito della qualità intrinseca delle canzoni. Questa sensazione, in realtà illusoria, persiste anche con la successiva "J.Smith", la migliore del lotto se solo fosse l'eccezione alla regola, che inizia con un riff scanzonato e libera il timbro di Healy, più sporco del solito, in un ritornello irruvidito il giusto che sfocia da un assolo di Andy Dunlop in un ponte di straordinaria bellezza in cui il falsetto del cantante è accompagnato da cori ovattati simili ad un canto religoso. La sorta di unione tra sacro e profano che la canzone proclama sembra in effetti riuscire, a condizione che si veda il tentativo per quello che è, ovvero un sorta di gioco che non ha nulla di serio. Anche il testo non particolarmente impegnativo ci dimostra che alla base del loro intento ci sia - forse - solo un momentaneo divertissment.

Ma già alla terza traccia la band comincia a mostra in il fianco. "Something Anything" parte bene con un riff debitore ai Radiohead di "The Bends" ma estromette il melodismo intrinseco nella canzone in una struttura troppo volutamente graffiante per non suonare ruffiana. Solo l'assolo della Gibson di Dunlop sorprende effettivamente l'ascoltatore, e anche quello più per il fatto di trovarsi all'interno di un disco dei Travis che per il suo reale valore. Anche con la successiva "Long Way Down" la band dimostra di credere nel nuovo vestito rock dei pezzi, ma nè il cantato di Healy, sprecato negli urletti rochi che speravamo avesse lasciato nell'album di esordio, nè le sovraincisioni delle chitarre regalano qualcosa di più che un pop-rock non molto dissimile da quello che Arctic Monkeys o The Kooks fanno ormai da qualche anno a questa parte. Una virata in positivo la si ha con la prima ballad dell'album, la dolce "Last Words", che se da un lato ci dimostra che Healy nonostante tutto non ha smarrito completamente il suo timbro naturalmente portato al sussurro più che all'urlo, dall'altro non può non rimandarci agli episodi più riusciti di "The Invisible Band". Finalmente, viene da dire, si risentono i vecchi Travis senza troppi artifici e con solo una buona melodia a metà tra il malinconico e il gioioso da far entrare in testa al primo ascolto.

La successiva "Quite Free" richiede più di un ascolto per poter essere realmente compresa; si tratta in effetti di un brano potenzialmente eccezionale che si smarrisce in un ritornello che ancora una volta prova a suonare alternativo pur non essendolo. La sensazione di un fastidio di fondo, quasi di una sorta di dispetto per questa virata indie che, autentica o meno, non si riesce proprio a digerire, cresce con "Get up", che sembra riprendere i temi più retorici e scontati di "12 memories" senza permutarne anche una melodia degna di questo nome. Il risultato, neanche a dirlo, sembra una canzone dei Jet. Healy è bravo e tecnicamente ispirato, ma ci si chiede che fine abbia fatto il suo timbro più autentico. Anche la successiva "Friends", un lento umile e immediato, dolce e soffuso sì ma certo non particolarmente catartico, ci fa solo rimpiangere gli episodi migliori dell'album precedente ("Battleships" e "Big Chair", per intenderci).
A ripescare dalle sonorità di "The Boy With No Name" ci pensa in effetti "Song To Self", potenziale hit che si candida ad essere la nuova "Closer", finalmente una canzone ben fatta con una melodia ispirata e divertente, un testo spigliato e la chitarra che se ne sta al suo posto e si limita a sostenere l'ottima voce del cantante. Il disco si chiude con "Before You were Young", una splendida ballata acustica sostenuta da un bel giro di pianoforte, che finalmente richiama alla mente nel ritornello triste e ascendente i Travis migliori, quelli del secondo album, quelli delle melodie pure di "As you are" e "Luv", quelli che ci hanno fatto sognare da adolescenti. Quasi spunta una lacrima di nostalgia a vederli oggi buttare via mezzo album dietro a chimere rock in cui non sono chiaramente a casa.

In conclusione, insomma, ci troviamo di fronte ad un cd che apre molti punti interrogativi. L'album di Dunlop, sì, l'album dell'Healy più rabbioso, il primo vero album "da band", con anche batteria e basso a farla da padroni, ma anche l'album meno coerente e omogeneo dell'intera carriera dei Travis. Non è certo una crisi creativa a nascondersi dietro questa virata verso il rock (anzi, le canzoni sono state concepite ad un anno di distanza dal precedente disco proprio perchè Healy si è sempre dichiarato molto ispirato dopo la nascita del suo primogenito); semmai, si tratta di una scelta tanto consapevole quanto inconsapevolmente azzardata, per non dire sciagurata. Inoltre viene da pensare che la band abbia assemblato e arrangiato maggiormente proprio quei brani in sè troppo fragili per poter essere presentati come vere e proprie ballate. E se proprio sulle ballad non c'è poi molto da dire, è su quella concentrazione di accordi distorti che verte di più la critica dell'ascoltatore affezionato ai Travis "reazionari" e puri, lo stesso tipo di ascoltatore che non può non dichiararsi parzialmente deluso anche dai loro degni cuginetti, i Coldplay. Alla fine da salvare, oltre alla titletrack, restano solo "Last Words", "Friends" e "Before You Were Young", con "Song to Self" e "Chinese Blues" sugli scudi.

Mi chiedo: oggi, alla fine del primo decennio del XXI secolo, è ancora possibile produrre un album realmente pop? Pop di qualità, pop degno erede dei Beatles, dei primi Radiohead, dei Travis appunto. La risposta, forse, ce l'ha data Healy con questo disco.

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