Ritorno in grande stile per i Travis, band scozzese che ha caratterizzato una fase importante nel pop britannico di fine anni '90 grazie principalmente a 'The Man Who' e 'The Invisible Band', due dischi considerati (specialmente il primo) come limpidi esempi di un songwriting che ha raccolto l'eredità di quella tradizione melodica che va dai Beatles agli uggiosi gruppi scozzesi anni '80 (Deacon Blue, Aztec Camera ecc.) per arrivare ai Radiohead e ai Coldplay (che hanno preso più di uno spunto dal loro bestseller).

Gruppo che non ha mai amato stare sotto la luce dei riflettori e che ha sempre scelto un basso profilo dal punto di vista dell'immagine, i Travis hanno comunque realizzato canzoni veramente notevoli che hanno accommunato una certa frangia generazionale non ben definibile ma che comunque non ha abbandonato il complesso in questi anni di minor esposizione mediatica seguita all'insuccesso di '12 Memories', disco cupo e poco immediato realizzato in mezzo a vari problemi personali dei musicisti.

Dopo quasi 4 anni di silenzio, esce in questi giorni il nuovo disco, intitolato 'The Boy With No Name' (dedicato al figlio del cantante e autore, nonchè neopapà Fran Healy) che segna un "ritorno alle radici" della band verso le sonorità di 'The Man Who', l'album per cui sono ancora ricordati e che ha rappresentato un'inevitabile pietra di paragone per tutti i lavori successivi: già il singolo Closer (e relativo video buonista con tanto di cameo di Ben Stiller) mostra una sterzata rispetto alla tristezza di '12 Memories', e anche gli altri brani presentati sul loro MySpace in anteprima suonano malinconici ma solari, arrangiati e prodotti divinamente (d'altra parte con la produzione di Nigel Godrich e la supervisione di Brian Eno, chiarissima in pezzi come The Big Chair, la qualità è garantita) e soprattutto con un songwriting ispiratissimo dovuto soprattutto al talento di Healy, qui alla sua migliore performance vocale.

L'album si apre con 3 Times And You Lose, una meravigliosa opening track con un wall of sound molto anni '70 (una ballata acustica stile The Band con cori femminili à la Leonard Cohen) che ritengo sia in assoluto il brano più ambizioso mai realizzato dai Travis, una canzone che è epica e dimessa allo stesso tempo e che trasmette un qualcosa di magico, veramente eccezionale.
Si procede con Selfish Jean, un pezzo molto catchy e trascinante che si poggia su un classico tempo Motown familiarissimo che avremo sentito mille volte (You Can't Hurry Love, A Town Called Malice, Walkin' On Sunshine) ma che, per un mistero che ancora non riesco a risolvere, non stanca mai e potresti riascoltarlo per dieci volte di fila senza assuefarti...dal punto di vista melodico mi sembra ci sia una certa influenza dei Belle & Sebastian più poppeggianti, il classico mood "pop allegro nonostante sia tutta la settimana che piove", che è naturalmente delizia per le mie orecchie.
La già menzionata Closer, è una ballata dal potenziale altamente radiofonico ed è il classico "grower" (un pò come fu Sing) cioè quei brani che al primo ascolto non ti dicono niente ma che poi, alla quarta o quinta volta che li senti nell'airplay, ti rimangono impressi e non riesci più a scacciarli dalla testa fino a quando non ne spunta un altro... devo dire che, per quanto sia una bella canzone, non rappresenta il disco che nonostante le premesse non è per nulla ruffiano ma suona sincero e addirittura innavvertitamente toccante in certi momenti.

The Big Chair è ad esempio un pezzo molto anomalo sviluppato sopra un giro di basso avvolgente e che procede con un sacco di accorgimenti un pò minimal che ne rendono interessante l'ascolto in cuffia... tra quelli che ho ascoltato, è il pezzo in cui si sente di più la mano di Eno mentre il finale è puro Godrich (con un fischio assordante, un'idea che in passato ha utilizzato diverse volte, quasi per "sporcare" un suono pulito con un rumore completamente astruso dal contesto della canzone). In ogni caso, il momento più alto del disco è rappresentato nella parte centrale, con la sequenza Battleships, Eyes Wide Open e My Eyes (possibile singolo), tre canzoni veramente perfette nella loro immediatezza e caratterizzate da avvolgenti trame melodiche, con un Healy ispirato come non mai... i Travis giocano sul velluto quando puntano al creare atmosfere malinconiche infondendo una sensazione di serenità allo stesso tempo, vibrazioni positive che si mescolano a quel retrogusto un po' nostalgico suggerito dai richiami alla musica del passato (Beatles, Kinks, Bob Dylan, Smiths) e da soluzioni armoniche ad alto tasso emotivo ma mai posticce o banali.

Da segnalare anche il cameo di KT Tunstall (poco più di una comparsata in verità) in Under The Moonlight e la conclusiva New Amstedam, un romantico e suggestivo omaggio sia alla città di New York (ormai residenza fissa di Healy) sia agli eroi personali del cantante (Jean-Michel Basquiat, Francois Truffaut/ Robert Zimmerman and De Niro/ Paris, Texas/ End of the world... and they meet/ on Blaker Street/ or the Park that is Central).

Insomma, 'The Boy With No Name' si rivela come un album elegante, raffinato, intelligente e poetico, mostrando un gruppo che finalmente è tornato in splendida forma dopo un momento di difficoltà e che ha realizzato senza ombra di dubbio il lavoro più maturo di una intera carriera, al di là dei paragoni che prevedibilmente saranno tirati in ballo con The Man Who.

Ma siamo comunque su livelli davvero eccellenti.

D'altra parte come concludere in modo migliore, se non lasciando direttamente la parola al buon Fran :"Ho preso nota di quel che mi ha detto una volta il famoso designer Paul Smith, una persona che stimo molto: non c'è bisogno di fare rivoluzioni, nell'arte, bastano piccoli spostamenti progressivi. Se ti allontani troppo dalla tua strada rischi di partire per la tangente e schizzare via, invece bisogna mantenere un tratto riconoscibile, coerente con quello che si è fatto in precedenza.... da qui a sessant'anni mi auguro che qualche nostra canzone sia ancora in circolazione e sappia commuovere la gente. Voglio che ricordino la nostra musica, non le nostre facce. ‘Why does it always rain on me?' è già diventata un classico, e anche ‘Sing'.... Succede per caso, non te ne accorgi finché non le suoni dal vivo e registri la reazione del pubblico: tra quelle nuove è stata proprio ‘My eyes', finora, a riscuotere il maggior successo in concerto. Puoi fare un intero disco di canzoni belle e originali come quelle di The Good, The Bad And The Queen e probabilmente da qui a dieci anni non se ne ricorderà nessuno. Questa almeno è la mia impressione...Certi dischi sono come quotidiani che durano lo spazio di un giorno, altri sono come romanzi che durano per sempre"

 

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