Ora svelo un piccolo segreto.
Il mio nick (con il quale mi firmo ovunque in rete) non è un omaggio al famoso Mulo Parlante, né (visto che siamo in un sito che si chiama "Debaser") a Francis Black. No, nemmeno Francis Ford Coppola.
Il mio è un omaggio a Francis Healy, una delle voci bianche più belle partorite dalla Gran Bretagna negli ultimi anni, e un songwriter spesso poco preso in considerazione ma a mio parere decisamente diverse spanne sopra il bolso Chris Martin, tanto per fare un esempio.
"The Invisible Band", terzo disco dei Travis pubblicato nell'estate 2001 (due anni dopo il trionfale ingresso nelle charts europee di "The Man Who") sarà sempre ricordato, quando si parlerà della carriera della band scozzese, come l'album di "Sing" il tormentone storico di quell'anno, aiutato da un videoclip entrato nell'immaginario collettivo.
Il successo di "Sing" (una sorta di soffice ballata cantilenata supportata da un ipnotico banjo: vabbè, chi non la conosce?) ebbe una portata straordinaria anche in Italia, dove invece era passato inosservato l'altrettanto epico singolo "Why Does It Always Rain On Me?" e spinse i Travis alla consacrazione nei più noti circuiti mainstream.
Un paradosso, se vogliamo: non c'è niente che può essere distante dai lustrini, pailettes e starlette dello showbusiness come questo gruppo scozzese, sorto dalle ceneri profanate del britpop ed evoluto poi in uno stile che (anche se potremmo discuterne per anni) ha anticipato di diverso tempo il tanto decantato "New Acoustic Mouvement".
I Travis hanno riproposto in una chiave allo stesso tempo moderna e retrò (caratteristica speciale della musica britannica) i ricordi uggiosi della Glasgow anni '80 di Deacon Blue e Del Amitri, le insicurezze urbane di gruppi scozzesi più "estremisti" (Belle & Sebastian, Arab Strap, Delgados), le melodie nostalgiche dei Beatles (versante McCartney) e di altri miti del rock (Bob Dylan, Byrds, David Bowie, Kinks). Hanno realizzato quella formula provata da tanti ma riuscita da pochi: venire dal popolo, arrivare alle masse ma allo stesso tempo rimanere semplici, confortevoli, se vogliamo ancora "vergini" commercialmente, nonostante le hits.
"The Invisible Band" è, in fondo, un concept album sulla difficoltà di restare se stessi e di mantenere i propri progetti, il proprio "design for life", nei confronti delle persone che amiamo o con cui viviamo. Ecco perchè in "Sing" Fran esorta la propria fidanzata a cantare, a tirare fuori la propria voce; si sfoga nella notturna e solitaria "Dear Diary" e parla di "fiori che cresceranno alla nostra finestra" ("Flowers In The Window").
La produzione di Nigel Goldrich rende questo disco una raccolta di quadretti in cui si rivivono momenti del passato da un punto di vista "invisibile", come se, tramutato in fantasma, Fran Healy canti dei propri tormenti cambiando continuamente spazio, tempo e luogo: così "Side" e "Pipe Dreams" sono visioni oniriche e astratte di un tramonto, "The Cage" e "Safe", con Healy che si accompagna da solo alla chitarra, sono la quiete a tratti irreale di un bosco sperduto, "Follow The Light" è la notte stellata di San Lorenzo, "Last Train" è l'ultimo addio prima di partire lontano, "Afterglow" sono le onde del mare in inverno, "The Humpty Dumpty Love Song" (la canzone che più ricorda gli U2) trasporta la mente in un limbo indefinito solcato dall'infinita estensione finale degli archi.
Canzoni evocative, romantiche, pop ma allo stesso tempo, in certi casi, sofisticate: la voce di Fran è ai più alti livelli e la band la asseconda con disinvoltura.
Il futuro dei Travis, con questo memorabile album, sembrava solare e radioso: sarà il grave incidente al batterista Neil Primrose a gettare le prime vere ombre nel gruppo e a generare un disco cupo come "12 Memories". Ma vale comunque la pena continuare a tifare per loro.
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