Tricky, poeta notturno, con il fumo in bocca e lo sguardo penetrante, sei solo un pirla. Sei stato capace di illudere mezzo mondo con i tuoi primi, devastanti, album (“Maxinquaye” e “Angels With Dirty Faces” su tutti, meravigliosi), per poi perderti nella trappola della mediocrità.
Declino dovuto alla vecchiaia? Alla voglia di essere sempre trendy? All’esigenza di far soldi una volta creata un’etichetta? Ebbene, mio caro Tricky, ho cominciato già a perderti nel momento di quel difficilissimo “Juxtapose”, elogiato a destra e manca, ma totalmente incomprensibile e lezioso. E poi “Blowback” e “Vulnerable”, belli e vivaci (il secondo soprattutto), ma con il rischio di scadere al secondo ascolto.
E in quegli attimi di leggera tendenza poppettara, riuscivi pure a fare qualche bella canzone (Quella bomba roteante di "Evolution Revolution Love" in grado di far girare le trivelle a ritmo di musica, la sensualità repressa di una ferocissima "Stay", la simpatica cover di "The Lovecats" dei Cure), ma poi, l’ecatombe.
Si può sapere che cazzo ti è successo? Un album di transizione, dopo cinque anni e un altro, appena giunto, “Mixed Race” che sembra il requiem della disperazione di un ragazzino di fronte ad un 2 in matematica. Sbilenco e notturno quanto vuoi, per carità, ma destabilizzante (e non in termini positivi) ai minimi storici.
“Mixed Race” è, giusto per mettere il coltello nella piaga, inutile e pedante, un sonnifero chic e lussuoso per chi vive di vacuità. Canzoni (dieci, tutte sui due minuti e mezzo) che sembrano b-sides di un gruppetto lounge-meteora, che vorrebbe coverizzare le canzoni dello zecchino d’oro.
C’è un imbarazzante tentativo di rileggere il trip-hop in chiave moderna, come emerge da un’orrenda filastrocca, “Early Bird”, che non avrebbe nemmeno la dignità di versione embrionale di un pezzo electro di Anna Tatangelo, o peggio di copiare i Daft Punk di “Technologic” nella bruttissima “Kingston Logic” o di buttarla sulla musica mediorientale con tentazioni da David Guetta che scopre l’oriente in duetto con Hevia (Hakim).
Certo, una bella “Ghetto Stars”, potente e cattiva al punto giusto, ma in grado anche di scaldare gli animi per poi riempirli di crudezza e letame e un’interessante trip nell’oscurità femminea al nome di “Every Day” sembrano risollevare le sorti di un artista perso nell’autoparodia e di un album che non s’a da fare, ma poi ecco apparire –dietro l’angolo, come un babau impazzito- una “Come To Me” mezza reagge, con tentativi di jazzato, che sembra interminabile, nonostante l’onesta durata.
“Naked Weapon” è uno svogliato tentativo di creare qualcosa che acchiappi l’ascoltatore con un movimento scuoticuli, ma finisce velocemente nel coma sonoro. “Time To Dance” tenta invano la sensualità, nei suoi due minuti scarsi, ma nessuno sano di mente scoperebbe con sottofondo questa ninnananna tecnologica con la puzza sotto il naso. “Really Real” sembra uscire dalle b-sides di “Plastic Beach” di Gorillaz (altro ritorno molto deludente), con ritornello ubriaco quanto vuoi, ma abbastanza scassamaroni, che può vantarsi almeno di un uso ispirante del synth.
Chiude “Bristol To London”, cazzatina conciliante, figa, con frecciatine di rap su ritmi sibilanti e synth impazziti, scorre veloce e si interrompe dopo poco.
E poi? E poi basta. Il disco è finito. Ventinove minuti di stronzate, che esclusi tre pezzi (Ghetto Stars, Every Day, Bristol To London) , potevano essere risparmiati.
Che il poeta notturno di Bristol ci stia prendendo per i fondelli o stia studiando qualche manovra di autodistruzione? E chi lo sa, nel frattempo ripongo questo insulto nello “scatolone dei ricordi”, chiudo a chiave il lucchetto e riprendo, felice e malato di alzheimer, “Maxinquaye” sperando in giorni migliori, quando Bristol tornerà a ruggire, sussurrare, violentare parole di dolore e bellezza.
E meno male che esiste una certa Beth Gibbons in grado ancora di turbare ed emozionare, nonostante il trip hop si sia trasformato, inesorabilmente, in un ricordo in bianco e nero.
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