Vi siete mai trovati chiusi dentro la cella frigorifera di un obitorio col cartellino identificativo tra le dita dei piedi? O tre metri sotto terra vestito in giacca e cravatta in una spoglia bara di rovere? Bene, allora conoscete lo stato d'animo che evoca un disco immenso e terribilmente angosciante e claustrofobico come questo "Pre-Millenium Tension" di Tricky del 1996.
Un disco oscuro e ipnotico che diventa una lenta ed inesorabile discesa agli inferi di una mente (la sua) irrimediabilmente danneggiata e deviata (sentire l'iniziale "Vent") reinventando un genere (il trip hop, difatto "quasi" una sua creatura) e collocandolo in una sottile linea blu di confine tra l'insanità mentale e la piena lucidità della decadenza di cui il nostro si fa portavoce ("Christiansands").
In queste 11 tracce si respira a pieni polmoni tutto il degrado sub-urbano delle metropoli e un senso di straniamento continuo ci accompagna in differenti luoghi border-line e malati, che sono gli stessi frequentati o che, più probabilmente, albergano tra le pieghe della mente sfasata di Tricky (esemplare "Tricky Kid" a riassunto di ciò). Un disco che alla sua uscita creò scompiglio e meraviglia tra la critica musicale (e non) di mezzo mondo: Melody Makers: "Ogni musicista, ogni altro artista, dovrà confrontarsi con questo?", The Guardian: "Pre Millenium Tension è un disco sconvolgente", The Time: "Se ci fosse l'Apocalisse ora, questo è il suono che avrebbe", Mixmag: "Lontano da tutto quello ascoltato fino ad oggi".
Un disco che non si nega anche momenti di straniata poesia musicale (il brano "Makes Me Wanna Die" cantata da una Martina in stato di grazia) per non farci ricadere subito dopo nella desolazione continua su basi simil dub di un Tricky impasticcato in un'altra dimensione ("Ghetto Youth"). Di nuovo giù, nei gironi infernali di "Sex Drive" o nelle atmosfere psico-lisergiche di "Bad Things" o nella sincopata funkeggiante "Lyrics of Fury". Splendida la successiva "My Evil is Strong" costruita su un NON tempo, assolutamente senza metrica musicale, su un recitato delirante e allucinato del nostro, che ci fa partecipe di un brano di free-jazz-triphop inimitabile. La conclusiva "Piano" ritorna su registri più accessibili con un piano, appunto, suonato in maniera ipnotica e ossesiva (due accordi in tutto il brano) che fa da tappeto sonoro ad un recitato liberatorio che diventa quasi un'invocazione di redenzione, una preghiera apocrifa di richiesta di aiuto a "qualcuno" che potremmo essere noi ma che difficilmente potrà essere esaudita da chiunque, per l'impossibilità oggettiva di calarsi nei panni di un musicista incredibilmente avanti per il suo tempo e che troverà la sua "svolta easy" (se mi permettete il termine francamente sbilanciato) coi successivi lavori d'inizio secolo.
Bello e angosciante come pochi, di certo non il suo capolavoro che, a mio avviso, resterà sempre "Maxinquaye". Consigliato, manco a dirlo, agli amanti del genere.
Carico i commenti... con calma