Tanto per mettere i puntini sulle i, Tsai Ming-liang era quello che aveva fatto Vive l'Amour, vincitore nel 1994 del Leone veneziano, un oggetto non identificato nella sua spietatezza superumana. E lo scoperchiamento del "disagio vita" continua senza considerazioni su questa destrutturizzazione spazio temporale che è la pellicola in questione.
L'apparente immobilità del tutto accade delle storie del taiwanese (invero malesiano) crea invece un vortice psichico che con le sue staticità ci costringe a partecipare ai movimenti impercettibili dell'eternità. C'è questa sacra attesa che avvenga il miracolo, quando l'apparizione di un Jean-Pierre Léaud ci fa sentire che siamo già noi il miracolo.
I fusi orari adattati ad osmosi per un'esigenza di un sentimento ultraterreno di accomunamento di solitudini. La proiezione della morte che in fondo rimane la più viva manifestazione della realtà nella certezza del suo sempiterno riapparire. Chi è quello che guardo allo specchio se non il mancato amore con la mia parte divina?
E allora si cerca di sopravvivere con escamotages dove si rincorre l'illusione dell'amore, anche se poi ti fregano la valigetta col campionario, anche se poi un "bacio rubato" ti sprofonda ancora più nel baratro esistenziale, anche se il ricordo di Antoine Doinel ragazzino è quello che ti tiene più dentro all'assurdità della realtà quando capisci che Jean-Pierre Léaud interpreta se stesso.
Le convenzioni sono sospese, col regista che più che scarnificare l'apparenza la ricopre di misericordia divina e la trasforma in attiva compassione, con l'aiuto della musica de "i 400 colpi". Non c'è pietà, non c'è speranza, non ci sono buoni sentimenti di facciata, non c'è dolore da rotocalco.
Rimane il silenzio, rimane la sospensione, la totale arrendevolezza apre a una purezza che ci commuove profondamente creando una sinergia con la storia dove tutti siamo lì a spostare le lancette di tutti gli orologi, alla "recherche" di un reset animico. Chissà che non dovesse funzionare, chissà... Le jour de gloire est arrivé?
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