Se sto dedicando gran parte della mia vita al cinema, provando a farne e drogandomi di continue visioni, è principalmente grazie a due autori che mi hanno accompagnato fino ad oggi: Kim Ki-Duk e Tsai Ming Liang. Nonostante sia cool distruggere il primo dopo averlo appoggiato per un decennio, l'ho sempre difeso sinceramente, fino a che non è riuscito a deludere anche me, con un'inguardabile commedia involontaria ("Moebius"), il secondo, invece,  dopo una serie di capolavori, ha deciso di lasciare per sempre la settima arte. 

Comprendetemi. So che troverete la mia malinconia infantile, ma capitemi, vi prego.

Nonostante di autori contemporanei che ammiro e di cui posso fidarmi ciecamente ce ne siano a bizzeffe (Haneke, Von Trier, Béla Tarr, Ulrich Seidl...) mi sento come abbandonato da quelli che sono stati i due pilastri del mio amore per il cinema. Soprattutto da Ming Liang. Perché se la speranza che Kim faccia un altro capolavoro c'è sempre, con Tsai questa è vana. Un addio confermato dal canto del cigno "Stray Dogs", premiato con il Premio Della Giuria all'ultimo Festival Del Cinema Di Venezia.

Uno shock che mi ha spezzato il cuore.
Perché non vedo Tsai come un regista, ma quasi come un amico, un maestro con il quale poter condividere affini riflessioni sull'umanità attraverso il concetto del guardare un film.

Ma andiamo con ordine, perché non voglio divagare troppo.
Un paio d'anni fa, già vi parlai di uno dei miei film preferiti in assoluto: "Vive L'Amour", di come mi avesse toccato e fatto tremare nel profondo, ma non vi accennai del fatto che l'intera filmografia del cineasta malese vada letta come un unico mega-film. Un racconto di formazione atipico che ruota attorno al corpo dell'attore feticcio Lee Kang-Sheng e del suo personaggio/alter ego Hsiao Kang.

Un personaggio confuso e con la filosofia della nullificazione verso una realtà che non gli appartiene. Partito come studentello ribelle in "Rebels Of The Neon God" (1992) e arrivato come padre di una famiglia allo sbando nell'ultimo "Stray Dogs" (2013). Un cammino attraverso il quale Hsiao Kang ha scoperto l'amore per uomini, donne, per il cinema, per la sua famiglia. Ha sperimentato il dramma della morte, dell'esistenza e dell'incapacità di comunicare, senza però riuscire mai a completarsi totalmente.

Detto questo vorrei soffermarmi su quello che è il film più estremo e sfacciato di Tsai: lo straordinario "Il Gusto Dell'Anguria" (2005), distribuito anche in Italia, dove viene spacciato per "una commedia sexy e fruttata" (parole testuali direttamente dalla locandina), in modo da invogliare quegli spettatori un po' smaliziati che sperano di godersi un film trasgressivo e spensierato con l'esotismo dell'Oriente. E io direi: poveri loro. 
Perché è un film cruciale, seminale e a tratti anche disturbante. Dove la poetica dell'autore permane, ma contemporaneamente si ribalta: se nei film precedenti (e successivi) i personaggi erano fantasmi in cerca di appoggio, spettri senza nome che vagano per vie metropolitane senza speranza, ora sono corpi ignudi, cadaveri ambulanti. Tsai ti getta addosso il vuoto umano, schiaffeggiandoti con la carne in vista, rischiando più volte il confine labile con la pornografia. 
Se prima c'erano temporali e allagamenti a circondare le solitudini del suo cinema, ora ci si trova in un dramma distopico privo d'acqua, dove la siccità (dei sentimenti?) distrugge i personaggi, riducendoli alla ricerca ossessiva del corpo e di tutto ciò che ne comporta: contatto, ma anche solitudine e incomprensione.

Tutto ruota attorno al simbolo dell'anguria, leitmotiv della sua filmografia che qui viene proposto in modo predominante e decisivo. Questo frutto, dal punto di vista semiotico, simboleggia "la fertilità femminile" oppure "una relazione sana e stabile basata sull'amore e sulla comprensione". Allo stesso tempo, però, ho scoperto che in cinese il detto "Spaccare un'anguria" significa volgarmente "Sverginare".
Ecco. Proprio come il frutto protagonista dell'opera, il film va letto così: un esserino dal cuore d'oro, ma allo stesso tempo orgoglioso di essere osceno. 

Un'indagine incresciosa su come questi corpi vuoti agiscono di fronte alla tragedia dell'esistere, a quest'impossibilità intrinseca di legarsi e di amare, di questa lotta perenne tra desiderio carnale e legame spirituale. Una lotta confermata stilisticamente dal continuo passare tra lo stile solito del regista (freddissimi e distaccati lunghi pianosequenza, spesso a camera fissa) e esplosioni di colori in siparietti musicali (già sperimentati in "The Hole" e ripresi in "Visage") volutamente trash, kitsch e volgari. Canzoni popolari cinese d'amore vero in correlazione con coreografie di sessuale spregiudicatezza (indimenticabile quella nel bagno pubblico, un festone di carta igienica in cui un esercito di donne-vulve assalgono un imbranato uomo-pene).

Per Ming Liang il sesso è il mezzo effimero attraverso il quale si può combattere lo spleen che attanaglia, inconsciamente, l'essere umano. L'atto sessuale, poi, a detta del regista non deve mai lasciare indifferenti. Dovrà o eccitare, o spaventare e disgustare, oppure ancora far ridere.

Emblematica, in questo senso la scena iniziale, da manuale dell'eros, dove un appassionato coito viene ironicamente interrotto da un cocomero tagliato: ci tocchiamo, scopiamo, ma continuiamo a non conoscerci, pur cercandoci.

Un'alienante tragedia vestita a lusso di gemiti, colori e lustrini. 

Un climax ascendente verso il nucleo dell'uomo, l'impulso, che raggiunge il suo apice in un indimenticabile finale lunghissimo. Dove prima ci si spaventa, poi si ride e poi, forse, si scoppia a piangere.

E allora, si può sapere chi diavolo siamo?

Per fortuna non c'è risposta. 

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