Flashback. Anno 2004.
Viene pubblicato in quello strano sottosuolo d’ombre e rugiada che risponde alla terra britannica questo “Mother’s Daughter And Other Songs”. Nessuna prima pagina, nessun word of mouth, se non qualche sporadica e timida recensione su qualche magazine di stampo underground.
Tutto ciò, se si pensa all’efferata prontezza dei media inglesi, abbozza già un piccolo caso. Uno strano caso? Strano si, ma non così insolito, dopotutto. Semmai spetta prender atto del fatto che, una volta inserito il suddetto cd nel nostro lettore, un sentimento agile più di qualsiasi moda ci percorra la schiena con dolcezza. E ritorni quell’atipico impulso chiamato incanto. Che vede nel suo avvio un soffice gorgheggio femminile che ha il compito di introdurre un arpeggio di chitarra e un elastico beat percussivo a dettarne il ritmo. Poco meno di due minuti come prefazione.
Poi, come dal niente, spunta una melodia vocale. E’ un attimo che ti suggerisce qualcosa, mai non sai che cosa. Passano una manciata di secondi e poi balzi sulla sedia. Inizi a zompettare per la tua stanza come un ossesso, ridacchiando sotto i baffi e sbraitando a voce non troppo sostenuta, come per non farsi sentire: “Beeeeta Band!!!”Si, perché questi Tunng, soprattutto ai primi ascolti, li ricordano parecchio. Nelle soluzioni vocali in primis, ma anche in quelle ingegnose combinazioni tra analogico e digitale. Li ricordano, e tanto, se pensate ai momenti in cui il gruppo scozzese, di recente congedatosi dalle scene, si dilettava a collegare certe limpide soluzioni folk a leggeri e trascinanti palpiti elettronici.
Solo, se nella Beta Band il tocco ritmico era, perlopiù, di palese derivazione hip-hop, qui ci troviamo, invece, di fronte a cadenze glitch, segno, quindi, di un’elettronica decisamente più recente ed evoluta. Le composizioni hanno un passo mediamente lento e sognante, le chitarre acustiche sempre in bell’evidenza, le voci quasi bisbigliate ed ipnotiche, ad inseguirsi l’un l’altra senza mai annoiare e, ogni tanto qua e là, morbide scie d’archi ad incorniciare il tutto. Si aggiunga a questo, una produzione eccellente, ordinata e brillante e degli ottimi arrangiamenti, che eludono l’effetto-noia in virtù di un equilibrio sempre presente e della pressoché totale assenza di prolissità.
Si comincia dall’opener “Mother’s Daughter”, ipnosi sotto effetto folk, per poi valicare sentieri acustico-digitali, vicini ai migliori Mùm in “Out Of The Window With The Window”, fino ad arrivare a quel magnifico gioiello che risponde al nome di “Tale From Black” e dove ci è concesso il lusso di riunire insieme Grateful Dead, Dentel, Beta Band, Arab Strap e Donovan in un colpo solo. Chapeau!
“Kinky Vans” e la splendida “Fairy Doreen” stanno solo a ribadire quanto già detto. E che, cioè, siamo di fronte ad un disco di una bellezza e accuratezza parecchio singolare, specie se si parla di un esordio.
Insomma, un sogno ad occhi aperti. E poco meno di quaranta minuti. Si e no, il tempo che ho dovuto pazientare stamattina, subito dopo il primo chiarore, a capire che sarebbe stata una bellissima giornata di sole.
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