Ah, la memoria, che cosa meravigliosa… era il lontano 1987 quando fremente stringevo fra le mani quello che credevo fosse semplicemente il quinto LP dei Tuxedomoon (al di là delle decine di singoli e mix), l’ottimo You, invece con mia amara sorpresa si trattava dell’ultimo. Per quell’epoca la band aveva perso il caldo cantante di origine cinese Wiston Tong (che l’ultima volta era apparso solo per la fugace e bellissima In a Manner of Speaking, su Holy Wars di 3 anni prima), ma soprattutto se n’era andato ormai da un lustro uno dei due imprescindibili geni-fondatori del gruppo: il mitico violinista-chitarrista Blaine L. Reininger.
L’altro fondatore, comunque, il tastierista-sassofonista (oltre che ormai unico cantante) Steven Brown, era riuscito a confezionare un album dalla bellezza ed eleganza quasi struggenti, grazie a nuovi inserimenti del calibro di Luc van Lieshout ai fiati, o a vecchie glorie come il fido e poderoso bassista Peter Principle. Ma nonostante una tournée foriera di gloria e onori (a Milano suonarono al Rolling Stone), i Tuxedomoon erano destinati a sciogliersi e You a rimanere il loro ultimo lavoro sulla lunga distanza.
Certo, tralasciando i live, ci sono state molte raccolte più o meno postume (Divine, Pinheads on the Move, Solve et Coagula) e per registrare meglio una di queste si è addirittura riformato il gruppo: si tratta di The Ghost Sonata, con la cattedrale di Ancona in copertina, uno dei loro CAPOLAVORI EPOCALI. Ma al di là di simili iniziative, più o meno lodevoli, la band era rimasta in somnium almeno fino al 1997, anno di uscita di un lavoro strumentale decisamente curioso: Joeboy in Mexico. Sotto mentite spoglie si potevano riconoscere le atmosfere, invero più jazzate che latine, ed i suoni col tipico marchio di fabbrica della coppia Brown-Principle, accompagnata da musicisti locali. Certo, solo loro; i Tuxedomoon erano ancora lontani.
Eppure occasionalmente i ragazzoni (ormai cinquantenni) si riunivano ancora, e persino col figliol prodigo Reininger. Nel 2001, in una di queste loro serate, a Villa Arconati di Bollate (MI) per la precisione, chi scrive ebbe l’onore di intervistare Steven Brown, il quale, evidentemente soddisfatto della sua performance (oltre che di se stesso), giunse a dichiarare: «e vedrai che presto uscirà un nuovo disco dei Tuxedomoon, con tutti coloro che hanno partecipato a questa grande avventura: Principle, Reininger, Van Lieshout”. Rimasi di sasso, e chiesi “persino Wiston Tong?”, lui assunse un’espressione corrucciata e, citandolo, rispose “I don’t know, I don’t know, I don’t know” (colta la citazione? Si tratta di L’Etranger). L’intervista apparve poi sulla fanzine Petali Viola.
Oggi, a quasi tre anni di distanza da quella dichiarazione, ero definitivamente convinto di essere stato buggerato: l’unica uscita con materiale da studio era stata l’ennesima raccolta postuma Sountracks / Urban Leisure. Quel vecchio volpone di Steven Brown l’aveva sparata grossa, oppure ormai i vecchi ragazzi litigavano troppo spesso per poter ancora lavorare insieme, oppure ancora la loro onestà era tale che, verificata una senile perdita di talento, avevano preferito non coprirsi di vergogna. Potete quindi immaginare il mio stupore nel vedere Cabin in the Sky nei negozi di dischi, titolo, tra l’altro, di un vecchio film antirazzista del ’43, di Vicente Minnelli…
Dalle note sull’elegante copertina nera in digipack si deduce che Brown non aveva mentito: sono loro, i due mitici fondatori con Principle, Van Lieshout e Geduldig, da sempre membro nascosto della band, responsabile degli “effetti visivi”. Oltre a loro diversi collaboratori, tra i quali qualche DJ e addirittura John McEntire dei Tortoise!. Si tratta di uno stranissimo progetto, pensato e prodotto in Italia, a Cagli, nelle Marche, addirittura tre brani hanno il titolo italiano (uno è il neologismo Annuncialto). Ma veramente si tratta di ispirazione? Allora non c’è stato nessun calo di talento?
Certo che fa impressione sentire il giro di basso di A Home Away, presto doppiato dal corno di Van Lieshout: il tempo sembra essersi fermato a 13 anni prima… mi vien da canticchiare «I’m seeding the clouds today». Anche la voce di Brown è così fresca e sicura, la melodia mesta e piena di quello spleen che sempre li ha caratterizzati. Pause strategiche, un breve cantato in francese a interrompere l’inglese, ma il pezzo termina quasi all’improvviso, lasciando un senso d’incompiuto. Vabbé, sarà solo un’introduzione all’album, anche perché l’oboe della successiva Baron Brown cattura veramente le profondità della psiche. C’è anche il violino, grande Blaine! Dalle note di copertina, fra i compositori, fa addirittura capolino il nome di Tong, e qui la gioia è smisurata, uno dei vertici dell’album. Il brano, tuttavia, un ballabile quasi-balcanico sincopato e sofisticato con fisarmonica sintetica, incuriosisce più che entusiasmare. Una tziganata-swingata che più che altro mette le cose in chiaro: noi siamo l’unico gruppo americano in grado di fare simili cose.
L’atmosfera si fa profonda, sentita e vibrante col terzo brano, il già citato Annuncialto. Un profondo suono di synth regge l’usuale basso di Principle ed un piano timido e malato. Poi entra anche l’armonica, in un brano oscuro, per chi apprezza il lato più dark del gruppo, uno strumentale dall’atmosfera desolata ed oppressiva. Non avrebbe sfigurato su Suite en Sus-sol. Bravi Reininger e Brown, bravi Tuxedommon, il vostro è vero talento! Insomma… l’inizio elettronico ed allegrotto della successiva Diario di un Egoista fa presto cambiare idea. Non è tanto la musica, una sorta di ballabile elettronico in salsa liscia, quanto il cantato a lasciare perplessi: in uno stentato italiano, con la parola “amore” ripetuta mille volte e con un bello “stronzo” nella prima strofa, Steven Brown inanella un’ironica conquista da macho pseudo-latino di serie B e leggermente analfabeta («un uomo come io»). L’ironia è ovvia, ma non salva da un sentore di autoindulgenza.
Ancora più perplessi lascia la successiva La più Bella, dove non si capisce chi, se Brown o Reininger, costringe un vecchietto per le vie di Cagli (ampiamente ringraziato nelle note di copertina) a cantare un canto popolare. Il poveretto prova ad abbozzare un Fiorin Fiorello, ma veramente sfugge il senso dell’operazione: violenza psicologica a fini estetici? Antropologia culturale di recupero? Cazzonaggine senile? La coda al violino di Reininger non salva (e non spiega).
Ma improvvisamente delle note struggenti al piano fanno la loro comparsa. Eccoli, uno dopo l’altro, loro: basso, corno, chitarra, una melodia derelitta sulla scala ripetuta del piano. Si tratta di Cagli Five-0, strumentale melodico fino all’ingresso di un sax devastante e sperimentazioni soniche di cui loro sono maestri. Ottima e abbondante, come si dice, ma per gli amanti dei Tuxedo qualcosa di già sentito (le registrazioni stradali in italiano non somigliano troppo a quelle di Martial / This Land su Pinheads on the Move?). La dolcissima chiusura di Brown (sembra un sax) viene però contraddetta dal beat elettronico, effettato da DJ Hell, di Here ‘til X-Mas. La voce è profonda e rauca quanto mai, il violino di Reininger devastante, l’andamento jazzato. Il brano è gigionesco e cacofonico, ma anche tosto, convincente nei suoi sviluppi free-form tra il desertico ed il delirante. I Tuxedomoon del 2000!
Beat ancor più disco e voce super effettata per Chinese Mike, brano di techno-jazz psichedelicissimo e diviso in due parti, con rimaneggiamenti elettronici di Marc Collin e Aksak Maboul. Quando il delirio impera, il pezzo si dà una calmata ed una chitarra acustica, un violino ed un piano lo acquietano, sebbene le distorsioni vocali spingano ancora da sotto. Un tempo reggae dà nuova vita ed un assolo di sax, ora, manda il tutto in metafisica, per un brano forse un po’ difficile, ma sicuramente uno dei punti di forza dell’album e dell’intera ultima produzione del gruppo. Un piano veramente struggente, presto doppiato da un violino non meno devastante, chiudono il brano, cioè aprono la successiva La più Bella Reprise, dove il campionamento della voce del vecchietto di cui sopra viene assorbita e conglobata dai due geni in una sorta di passo avanti nelle ricerche melodiche (e armoniche) così meravigliosamente compiute su The Ghost Sonata. Insomma… così almeno l’operazione acquista un senso! Peccato per i soli due minuti e mezzo, troppo pochi.
Si prosegue. The Island comincia con cacofonie rumoristiche ed effetti vari, fino all’ingresso di un clarino. Tuttavia il brano sembra non staccarsi da una serie di sperimentazioni soniche un po’ velleitarie. Da ascoltare sotto l’effetto dell’hashisc. Ma un beat tra l’elettronico ed il caraibico fa il suo ingresso con Misty Blue. Sebbene la ritmica sia ruffiana, il risultato della voce di Reininger sottoposta ad eco (in tonalità presa paro paro da Bowie) e dell’elettronica sapientemente distribuita, oltre ad un sax da brividi, è estremamente piacevole, da smarrimento interiore, da abbandono di un’anima errabonda. Un brano orecchiabile, quasi commerciale, ma assolutamente non banale. Bravi!
Ma una chitarra incredibilmente distorta rompe l’incanto. Una percussione tribale appoggia bordate di elettronica, si intuisce la superpoduzione di un DJ (Hell, anche in questo caso), oltre al missaggio un po’ alternativo di McEntire. Piano in scala jazz, fiati in sordina, ripetizioni vocali in loop, il brano esplode solare, per quanto tormentato da effetti. Si tratta di Luther Blisset, entità collettiva per eccellenza, libera partecipazione di liberi membri in una festa orgastica e sgangherata, dove le parole (in inglese e in italiano) lasciano il senso che trovano. «No one writes these things down. I will write them. No one writes them because there is no time. I will make time», la libertà che si fa bandiera, la sensibilità mutata in bastione. Qui sì siamo davanti a qualcosa di mai sentito, dove all’anarchia dei sixties si aggiunge la destabilizzazione elettronica di oggi.
Altri effetti preannunciano il brano di chiusura, Annuncialto Redux. Echi, riverberi, leggeri flanger, a rendere un po’ di quella serietà che nei Tuxedo è d’obbligo e che qui spesso viene a mancare. Ebbene sì, Cabin in the Sky si chiude così, con questo strumentale meditativo eppure frastagliato di effettistica (la produzione è di Tarwater). Un disco che si scorda della claustrofobica paranoia che tanto ci era piaciuta su You, per farsi influenzare dalle atmosfere solari e jazzate trovate su Joeboy in Mexico.
Un disco a tratti figlio più del mestiere che dell’ispirazione, ma, quando a fuoco, profondo, tagliente, spiazzante. Perché non è facile rimanere nel solco della tradizione e comunque proporre qualcosa di nuovo, di sorprendentemente nuovo. Il vecchio è morto, ma non fino in fondo, il nuovo è nato nella sua traccia, ma non ce lo aspettavamo. Bravi Tuxedomoon. Grazie per essere tornati.

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