Pochi artisti negli ultimi anni hanno dimostrato una capacità di sprecare copertine evocative abbinandole a lotti di canzoni insignificanti pari a quella dei Twenty One Pilots, eclettico duo musicale dell'Ohio. La differenza tra il senso estetico di “Blurryface” (2015) e i dozzinali suoni di synth scelti in molte delle canzoni in esso contenute è quantomeno disarmante. Con quel lavoro però Tyler Joseph e Josh Dun avevano potuto per la prima volta sperimentare un successo di portata globale: le radio avevano trovato nei singoli “Ride” e “Stressed Out” la freschezza di due ideali tormentoni estivi e gli aficionados avevano potuto apprezzare la versatilità del disco grazie all'aggiunta di spunti rock nello spettro cromatico del duo (“Heavydirtysoul”), che già comprendeva pop, rap più di cuore che di tecnica e reggae bianco.

Il successivo “Trench” (2018) era però opera di ben altro spessore. Variegato ma mai caotico, riusciva nell'intento di risultare contemporaneamente catchy ed estremamente raffinato in certe soluzioni di produzione. Al puro godimento procurato da momenti come l'impetuosa “Jumpsuit”, la camaleontica “Morph” e l'intima “Neon Gravestones” – corredata da un testo significativo sull'importanza del non glorificare l'atto del suicidio – si aggiungeva poi un secondo livello di comprensione del disco, più profondo e riservato ai fan più accaniti: la storyline iniziata con l'album precedente vede qui il protagonista Clancy impegnato nella lotta contro i “vescovi” che controllano la città immaginaria di Dema e nel tentativo di evasione da quest'ultima. Tutte idee interessantissime che avrebbero potuto aprire a futuri esiti assolutamente imprevedibili.

Eppure i Twenty One Pilots fanno il loro ritorno sulla lunga distanza con un album che vanifica tutto quanto di buono avevano fatto in “Trench”, già dal titolo: “Scaled and Icy” è anagramma di “Clancy is dead”. E la suggestiva copertina a tinte pastello ci trasporta in un universo in cui tutto o quasi è rosa e fiori, narrato attraverso un pop-rock innocuo come il drago che vi è ritratto sopra. Solo nel singolo “Shy Away”, ben poco pretenzioso ma indubbiamente gradevole, si possono trovare residui di aggressività, comunque non paragonabili al “primo assaggio” del disco precedente, la già citata “Jumpsuit”, e non sufficienti a giustificare il cambio del logo nel Sai, il tradizionale manganello di Okinawa.

Il resto dell'album è una collezione eterogenea di brani perlopiù solari, a partire dall'incedere beatlesiano di “Good Day”, il cui testo appare pesantemente influenzato dall'esperienza del lockdown (“I can feel my saturation leaving me slowly”). Ed è un tema che indirettamente ritorna in tutta l'opera, cui Joseph e Dun hanno lavorato separatamente inviandosi a vicenda le proprie registrazioni. L'illimitata libertà creativa ha paradossalmente portato ad un'eccessiva semplificazione della parte ritmica. Emblematico è il trattamento riservato all'unica parte di batteria degna di nota dell'intero disco, il beat effettato del secondo singolo “Choker”, lasciato inspiegabilmente in secondo piano nella prima strofa ed abbandonato nella mielosa coda.

Questo alleggerimento disgraziatamente non risparmia neppure i testi, che nel migliore dei casi appaiono impersonali (“Slow down on Monday, not a sound on Wednesday, might get loud on Friday, but on Saturday we paint the town”, da “Saturday”) e nel peggiore ci mostrano un Tyler Joseph – 32 anni, padre e marito – imbarazzante nel suo giovanilismo (il ricorso ad espressioni come “low-key”, “vibe” e “homie”).

Musicalmente, i rari tentativi di cambiare le carte in tavola non suscitano mai vero interesse. La chitarra elettrica di “Never Take It” non graffia quanto dovrebbe e il numero island-pop “Bounce Man” è adatto al massimo ad una bevuta tra amici.

Le cose vanno decisamente meglio quando il duo si affida a formule ben collaudate, come nella doppietta finale. “No Chances” rispolvera i sintetizzatori minacciosi dei momenti più oscuri della loro discografia e li associa per contrasto ad un ritornello malinconico e rassegnato, in una configurazione che ricalca quella di “Pet Cheetah” (da “Trench”) smussando però le asperità di quest'ultima in favore di un'andatura solenne e regolare. Più delicata e poetica è la conclusiva “Redecorate”, che riflette sul rapporto viscerale di un'aspirante suicida con la propria stanza e sull'importanza che ogni particolare assume visto dalla sua prospettiva (“Blankets over mirrors, she tends to like it / She's not afraid of her reflection but of what she might see behind it […] / Then one night she got cold with no blankets on her bed / So she ripped them off the mirror, stepped back and she said: / I don't wanna go like this / At least let me clean my room”). Un testo intelligente e commovente su una base più stratificata ed appagante, purtroppo un unicum all'interno di “Scaled and Icy”.

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