“Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare egli stesso un mostro. E se guardi troppo a lungo nell’abisso, l’abisso vorrà guardare in te” (F.W. Nietzsche).
Talvolta nelle arcane fluttuazioni dell’animo umano i volteggi dell’esistenza assumono contorni imprevedibili: maschere socializzate per sublimare frustrazioni primordiali e pieghe vitali dal sapore pirandelliano, trasmutano chi le percorre artefice e vittima di se stesso. Le cronache, soprattutto quelle delle espressioni artistiche, ribollono proterve di prosceni del genere: fingersi per sentirsi di essere, immedesimandovisi fino a incollare irreversibilmente se stessi nel proprio clichè.
Negli scenari Dark questo processo ha avvolto dentro le proprie spire molte personalità dall’indole particolarmente contraddittoria e viva: su tutti il podio più oscuramente radioso spetta forse a Peter Steele, tenebroso istrione ieraticheggiante della Brooklyn più depravata. Alfiere maledetto d’un raro curusus disonorum, ha riversato nella sua creatura tutta l’enormità del proprio Ego sulfureo.
E se in effetti tutti i lavori dei Type O Negative risentono appieno della cupezza lacerante infestata nell’animo del loro Leader anti-ideologo, ve n’è uno in particolare dove il suo smarrimento interiore ha proiettato in maniera rassegnata tutta la desolazione d’una mefitica irreversibilità esistenziale. "World is coming down" vede la luce al morir del vecchio millennio e decolora un brandello di vita particolarmente funesto del Mastermind, al punto da farglielo ritenere il Nadir della propria carriera. Mai autosuggestione critica fu più falsa; è dagli estri sinceramente annichiliti che il phatos più fecondo fiorisce rigoglioso: depredato con prepotente umiltà dalla cartapesta più ipocrita del marketing sentimentale, esibisce in tutta la sua profondità le sincere debolezze del percipiente.
E così Skip it, simulando un artificioso inceppamento del cd, prelude al primo vero brano del platter: White Slavery, bastione colossale in cui la vena (auto)distruttiva di Steele si scaglia con tutta l’essenza più buia della sua anima (The summer snow, but it’s not cold. Once it’s tested, thus infected. I’ve lost myself again. I’ve lost myself again it’s a night mare but it’s clear. It will end, but then?..). Un vero e proprio processo di transfert de-emozionale tradotto in musica; quasi dieci minuti di lacerante oppressione monolitica trasmutano il consueto umorismo nero della Band in un fraseggio dal taglio annientante. Chitarre zanzarose e tastiere eteree che inneggiano accompagnate da un cantato angoscioso e senza speranza, trasportano l’ascoltatore nelle pieghe più lugubri dell’esperienza umana. Il risultato è un macigno ossessivo che imbastisce viaggi diafani stralunati dall’omogeneità più luttuosa.
Dopo un incipit così grave la reazione più intuitiva sarebbe quella di considerare tutto il seguito mero satellite imperfetto d’un pianeta inarrivabile; invece non è così perché la vena del Green Man, inesauribile, continua a distillarsi nei brani successivi con rara edacia. Everyone I love is Dead, riprendendo un tema ricorrente in molti altri brani, secerne un miserrimo epitaffio sulla caducità delle emozioni e sulla beffa emotiva di chi vive i propri sentimenti tramutandoli in boomerang fatali (Life's a game i cannot win. Both good and bad - must surely end. The mirrors - always tell the truth. I love myself for hating you). Anche qui l’organo apocalittico di Josh Silver costella il brano d’una imponenza grave, seppur dai tratti meno oppressivi di White Slavery.
I toni (si fa per dire) si smorzano ancora un po’ nella successiva Who will Save the sane che, assieme a Pyretta Blaze sul connubbio tra sottomissione sessuale e autocancellazione dell’ossessione, disegnando melodie più ariose, riesumano lo spettro di Jim Morrison per farlo rivivere in una session con i Black Sabbath. Da notare soprattutto in Pyretta Blaze l’ispiratissimo assolo di Kenny Hickey: chitarrista la cui adesiva abilità tecnica può considerarsi imprescindibile osmosi simbiotica al valore esecutivo della band.
Ma il vento del platter è un ispirato maestrale di odio creativo; la sfrontata genialità distruttiva di Peter ritorna con prepotenza nell’apice con la Title Track. Il gothic che si fonde nel progressive e sulla scia d’un tormento claustrofobico erige una guglia solenne; canti gregoriani accessori e oppressioni stilistiche iper ralentate rifulgono in un colosso di oltre undici minuti. Qui la misantropia cosciente raggiunge l’acme e nell’animo turbato dell’autore oceani della rassegnata disperazione ribollono della ferocia più plumbea. Senza dubbio uno dei vertici assoluti di tutta l’opera dei Type o Negative. E neanche quando ritornano nell’archetipo artistico/vampiresco loro più congeniale la straordinarietà artistica dei 4 di Brooklyn subisce smacchi: Creepy Gren Light così come All Hallows Eve rappresentano due momenti dalla bellezza conturbante; nascono entrambi con un tetro arpeggio di basso per poi rifluire in atmosfere di evocatività graffiante. E’ solo apparente, infine, il vago accenno di recrudescenze autoironiche in Everything Dies: oltre lo sbiadito scenario auto consolatorio di partenza anche qui, così come nella Title Track ed in Everyone i loved is dead la prospettiva è una cruda introspezione appena alleggerita da una fievole melodia pop iniziale.
Chiude tanta magnificenza un Medley di Cover dei Beatles rivisitati in chiave Doom; è un trittico eccentrico (“Day Tripper", "If i Needed Someone "e" I Want You (She’s So Heavy)"), ma nonostante la contaminatio contempli tre momenti inusuali, la loro scelta arreca particolare omaggio ai 4 Four. Soprattutto I Want You (she’s So Heavy), brano ingiustamente misconosciuto, più che una cover in realtà è un vero e proprio omaggio alle anticipazioni inconsapevoli che J. Lennon darà al mondo del Metal estremo. Tramontando sul giaciglio delle sperimentazioni progressive, resta solo da chiedersi come sarebbe proseguito il sodalizio degli Scarafaggi se l’ispirazione eterodossa di Yoko non avesse fagocitato alla propria esclusiva mercé l’estro di Lennon..ma questa è un’altra storia.
In definitiva, quanto sia sincero il dolore che il Green Man ha riversato su questo disco smisurato non è dato sapere; fatto sta che le note sprigionate trasmettono un apporto di rassegnata consapevolezza verso quelle caleidoscopiche convenzioni così tanto simultaneamente comprese e derise dalla Band. Ma naturalmente non è solo questo ciò che colpisce in un lavoro così complesso, annientante e ricercato; qui non c’è frazione di secondo dove l’Eden artistico ricorra nelle più rare e tortuose delle maniere.
L’apporto vocale di Steele qui come non mai cova meraviglie oniriche e, catapultando continuamente l’animo dell’ascoltatore all’interno della propria mestizia, gliela bisbiglia esorcizzata delle proprie scorie. Ed è questo forse il più grande miracolo di World is coming Down: riuscire a trasmutare le emozioni malsane di chi lo ha concepito facendole rivivere “purificate” nell’orizzonte mentale del destinatario.
Quando il dolore non cessa di essere arte.
Nel ricordo di Peter Thomas Ratajczyk, indimenticato angelo crepuscolare (Brooklyn, 4 gennaio 1962 – Brooklyn, 14 aprile 2010).
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